Basket. Fede e canestri, il segreto di Miami
Jimmy Butler (Miami Heat) a canestro contro i Los Angeles Lakers
Comunque vada, Miami ha già vinto. Anche se venerdì notte l’anello andrà ai Los Angeles Lakers (conducono 3-1 la serie finale). Gli Heat hanno messo in campo quanto di più prezioso il basket possa offrire: lo spirito di squadra, la capacità di far fronte alle avversità, la voglia di non mollare mai, la profondità di uomini che hanno trovato nel canestro uno strumento di salvezza. È stata già un’impresa essere approdati in finale. Che i Lakers fossero infatti la squadra da battere in questa anomala stagione Nba era abbastanza prevedibile. Non era invece affatto immaginabile che a contendere il titolo a LeBron James e compagni fossero loro, gli Heat, che non figuravano nemmeno tra le prime teste di serie a Est. Nell’anno in cui il Covid ha travolto le nostre vite, raffreddando anche l’interesse per quel che resta dello sport (tra campionati privi di pubblico e rose condizionate dai contagi), va dato atto a Miami di aver scaldato gli appassionati in collegamento con la surreale “bolla” a porte chiuse di Disney World. Qui, dove l’America del basket ha se non altro trovato una fortezza impermeabile al virus.
Ma poi, mai nome fu più azzeccato: Miami “ Heat”, “caldo”, come il clima estivo di cui beneficia tutto l’anno la città della Florida ma anche come il “calore” con cui viene vissuto questo sport. In quel logo con la palla infuocata che attraversa l’anello del canestro c’è tutta la fame di vincere, bruciante, di una franchigia giovane (nata nel 1988) ma quasi sempre protagonista. Tre i titoli già portati a casa. Nel 2006 grazie alla coppia stellare Shaquille O’Neal-Dwyane Wade. Nel 2012 e nel 2013 con la squadra dei “tre tenori”, Wade (ancora lui) con Bosh e LeBron. Ma se dopo qualche stagione difficile sono tornati a giocarsi il titolo, il merito è di due “registi” speciali: Pat Riley, il presidente, e Erik Spoelstra il coach. Per chi segue da anni la Nba, Riley non ha bisogno di presentazioni: con i Los Angeles Lakers è stato campione Nba già da giocatore, poi da assistente allenatore e quattro volte da coach. Con gli Heat invece ha vinto un titolo da allenatore (nel 2006) e due da presidente (2012-2013). Un vincente in campo e dietro la scrivania che è diventato un’icona soprattutto alla guida dei Lakers degli anni Ottanta. Ultimo di sei figli, è cresciuto più con sua madre, cattolica fervente, che lo chiamò Patrick in onore di san Patrizio. Suo padre, affermato giocatore di baseball, era sempre in giro, ma gli impartì un’educazione spartana. Per svezzarlo aveva ordinato ai fratelli maggiori di portare Pat a giocare nei campetti di basket di quartieri difficili in cui spesso aveva la peggio nelle mischie con ragazzi più grandi. Un aneddoto che lui da coach raccontava spesso ai suoi giocatori per motivarli. Ambizioso e determinato, odiato ma temuto dagli avversari, a 75 anni è arrivato a giocarsi il decimo titolo.
È stato lui stesso a incoronare il suo successore in panchina, il 49enne Spoelstra, suo assistente, che a Miami ha cominciato come coordinatore video ben 25 anni fa. Una lunga gavetta per un uomo che ha costruito il suo successo con pazienza e sacrificio. Ha sempre riconosciuto che la disciplina e l’etica del lavoro gli sono state trasmesse dai gesuiti alla Jesuit High School di Beaverton (Oregon), una scuola con una grande tradizione sportiva. Promosso coach a 37 anni, “Spo” ha subito mostrato talento e carisma, costruendo squadre di gente affamata come lui del resto. Ha portato gli Heat alla conquista di due titoli. Eppure non ha mai vinto un premio da allenatore, perché le sue vittorie sono state sempre attribuite alle star che aveva in squadra. Una scarsa rico- noscenza che ha sottolineato anche il grande ex della finale, LeBron James: «Penso che Spoelstra non abbia mai ricevuto dai media la considerazione che merita», ha tuonato The King che ci ha tenuto a omaggiare anche Riley: «Oggi la Nba non sarebbe la stessa senza di lui, un uomo che sa come vincere e lo ha fatto per 40 anni». Se oggi gli Heat se la giocano punto a punto con i Lakers è proprio in virtù di una super organizzazione in campo, capace di sopperire anche alle assenze più pesanti. Come quella, che alimenta tanti rimpianti, dello sloveno Goran Dragic, il miglior realizzatore dei suoi prima delle Finals. A 34 anni sta vedendo sfumare l’occasione della vita: «Ho lavorato 12 anni per arrivare a questo punto, mi chiedo perché sia successo proprio a me. Passo il tempo a chiedermi, a invocare il Signore che sta lassù e a domandargli: “Perché è dovuto succedere proprio adesso?”. È davvero dura da accettare. Provo a ragionare in questo modo: tutto quello che succede ha una ragione, ha un senso, per questo vedremo come andranno le cose».
Spoelstra ha rivelato di aver dovuto vestire i panni del padre che consola il figlio in lacrime, sia per Dragic che per Bam Adebayo (l’altra stella rientrata se non altro in gara 4). Il gigante di Miami, autore di una stoppata leggendaria contro Boston, ha sofferto a stare fuori, ma è pronto di nuovo a dare tutto. Lui che è riuscito a superare cicatrici ben più profonde. Suo padre non l’ha mai conosciuto è andato via di casa lasciando la madre da sola ad accudire il piccolo in una roulotte. Qui è cresciuto Bam che non si stanca di ripetere: «Ho visto mia madre lottare. Tornare a casa stanca. Crescendo, ho iniziato a pensare: “Non se lo merita”. Tutta il mio impegno è diventato portare mia madre fuori da quella roulotte». Alla madre deve tutto, anche la fede che lui condivide sui social citando san Paolo: «Sii di esempio ai credenti, nel parlare, nel comportamento, nell’amore, nella fede, nella purezza».
E che dire di Jimmy Butler, il trascinatore, l’eroe di gara 3, che una madre ce l’aveva ma l’ha cacciato di casa quando aveva 13 anni perché lo riteneva un teppista. Una donna provata anche dall’abbandono del padre prima che Jimmy nascesse. Il ragazzo però si è sempre tenuto lontano dai brutti giri, anche quando senza una casa ha dovuto cercare alloggi di fortuna, sotto i ponti all’interno di un cartone. nei sobborghi più malfamati. Fino a quando ha trovato un’altra madre, la mamma di un suo amico, che l’ha adottato donandogli un’altra vita. L’Oliver Twist del basket oggi si sente «benedetto ». «Credo fermamente in Dio - ha spiegato -. E lo adoro. Cerco di andare in chiesa tutte le domeniche. Leggo costantemente la Bibbia, perché so che non avrei potuto scrivere questa storia da solo». Sa di aver incontrato sulla sua strada degli angeli. «Le persone che tengo costantemente nella mia vita sono lì per via di Dio, perché mi conosce e sa che ho bisogno d’aiuto. E Lui mette sempre qualcuno nella mia vita per aiutarmi» Venerdì notte si torna in campo, ma Miami ha già vinto.