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Filosofia. Neil Levy: «Contro le fake news essere razionali non basta»

Sofia Bonicalzi e Andrea Lavazza martedì 4 giugno 2024

Libertà umana e l’assenso a false credenze: temi chiave che non possono più essere affrontati soltanto da pensatori “in poltrona”. Ma il rapporto tra filosofia e scienze empiriche non è sempre idilliaco. «Nei secoli passati – spiega il filosofo Neil Levy, uno dei più prolifici e versatili nell’ambito analitico, in Italia in questi giorni –, la filosofia ha intrattenuto un serio dialogo con le scienze e alcuni filosofi erano a loro volta scienziati di spicco (si pensi, ad esempio, a Cartesio). Nel XX secolo, e soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, la filosofia ha cominciato a distaccarsi dalle scienze. Sebbene un certo grado di indipendenza sia probabilmente necessario (i metodi della filosofia non sono identici a quelli della scienza), molti filosofi ora credono che questo divorzio abbia rappresentato un passo falso. Io appartengo a coloro che pensano che, su molte questioni, la possibilità di progresso richieda l’apporto delle discipline scientifiche».
Studioso dalle molteplici linee di ricerca, Levy ha legato precocemente il suo nome alla neuroetica, disciplina che nasce negli Stati Uniti nei primi anni 2000: «Nel 2007 ho pubblicato il libro Neuroetica (tradotto anche in italiano) e nel 2008 ho lanciato la rivista “Neuroethics”. La neuroetica nasce dalla stretta collaborazione tra neuroscienze e filosofia. Ha due focus differenti. In primo luogo, si occupa delle questioni etiche che emergono all’interno delle neuroscienze. Pensiamo alle preoccupazioni relative all’invasione della privacy che potrebbero derivare dalla nostra crescente capacità di “leggere” le menti con la tecnologia di scansione cerebrale. In secondo luogo, la neuroetica si occupa di come le scienze della mente possano aiutarci a rispondere alle tradizionali questioni filosofiche. Si pensi che molti problemi filosofici sorgono perché abbiamo due convinzioni in conflitto. Per esempio, molte persone trovano difficile rinunciare alla convinzione che gli esseri umani abbiano il libero arbitrio, ma trovano anche molto convincente l’idea che ogni azione sia determinata dalle leggi della natura. Le scienze della mente potrebbero aiutare a dimostrare che una di queste convinzioni è un pregiudizio psicologico non affidabile. Ad esempio, alcuni filosofi hanno argomentato che la credenza nel libero arbitrio deriva dalla forte emozione che proviamo quando contempliamo azioni ritenute sbagliate che hanno conseguenze rilevanti. Questo argomento è di matrice neuroetica nel momento in cui un filosofo utilizza metodi psicologici per sostenere la propria tesi (altri filosofi peraltro hanno utilizzato gli stessi metodi per sostenere la tesi opposta)».
Fra le varie discipline che si intersecano con la neuroetica, Levy è interessato in particolare alla psicologia e a come questa può spiegare il fenomeno della disinformazione: «Lavoro sulle false credenze. Perché le persone convivono con la disinformazione? Ad esempio, perché così tante persone sono restie ad accettare i risultati e i metodi della scienza? In molti Paesi, abbiamo visto importanti forme di disinformazione affermarsi durante la pandemia di Covid-19, e le persone sono morte a causa di false credenze. Questo non è un fenomeno nuovo. Il tasso di vaccinazione tra i bambini era diminuito già molto prima della pandemia, e la disinformazione ne era una delle cause. Inoltre, la nostra incapacità di affrontare la crisi climatica è in parte derivata dal rifiuto della scienza. Che cosa spiega questi fenomeni? Il motivo per cui le persone accettano la disinformazione è oggetto di un vivace dibattito in psicologia». Secondo Levy, la teoria più diffusa è forse quella secondo cui le persone si comportano così a causa dei loro pregiudizi cognitivi o di qualche altra forma di fallimento della razionalità. «Ma la mia prospettiva è molto diversa - spiega -. Mi baso sugli studi relativi all’evoluzione culturale. Questi sottolineano che siamo essenzialmente animali sociali. Gran parte delle nostre conoscenze sono sociali: le generiamo insieme, e la capacità individuale di comprenderle autonomamente è spesso molto limitata. Poiché la conoscenza sociale è così importante per noi e per la nostra sopravvivenza, ci siamo evoluti per essere sensibili alle testimonianze: se qualcuno sembra più esperto di noi, o se sembra rappresentare il consenso su un certo tema, prendiamo molto sul serio ciò che dice. Allo stesso tempo, siamo sensibili alla possibilità di essere ingannati, quindi preferiamo le testimonianze di persone che condividono i nostri valori. Chi non li condivide potrebbe ingannarci o semplicemente non preoccuparsi di ciò che dobbiamo sapere. Ci sono abbondanti prove del fatto che abbiamo questo tipo di sensibilità, e personalmente sostengo che questo atteggiamento sia razionale». Ma – se ci si riflette - è anche tutto ciò di cui abbiamo bisogno per spiegare perché le persone accettano la disinformazione. «La accettiamo – afferma Levy – quando proviene da persone che pensiamo siano dalla nostra parte, ma che sono più esperte di noi. Questo non è irrazionale (le persone accettano le informazioni corrette esattamente per gli stessi motivi), né deriva dai limiti di coloro fra noi che esperti non sono. Tutti accettano le informazioni sulla stessa base, anche gli esperti, perché nessuno è esperto in più di un’area molto limitata. Qualcuno potrebbe essere un esperto in un particolare settore della chimica, della sociologia o della teologia, ma sono nella stessa posizione di tutti gli altri riguardo a ogni altra area di indagine».
Le prospettive non sembrano molto rosee: «La mia idea, secondo cui gli esseri umani sono dopotutto animali razionali - continua Levy - è ottimistica sotto alcuni aspetti. Tutti rispondiamo alle prove e agli argomenti. Ma questi non sono indipendenti dalla posizione sociale e politica di chi li sostiene. Quando, ad esempio, uno scienziato del clima presenta dati che mostrano che gli aumenti di temperatura sono causati dalle emissioni di carbonio, alcune persone potrebbero razionalmente respingere le prove offerte. Questo non perché non le capiscano (probabilmente no, ma neanche la maggior parte di coloro che le accettano le capiscono davvero), ma perché la loro fiducia nei dati e nelle conclusioni è razionalmente sensibile a quella che ritengono sia l’identità politica dello scienziato e alla loro valutazione della probabilità della conclusione. Siamo animali razionali, ma non dovremmo concludere da ciò che, se solo insegnassimo il pensiero critico nelle scuole o garantissimo che tutti siano esposti a informazioni affidabili, tutti sarebbero d’accordo sui fatti. Non possiamo cancellare le nostre identità politiche e sociali, e gli agenti razionali rispondono alle prove e agli argomenti in modi che sono plasmati da queste identità».
Come si può, dunque, pensare di combattere la disinformazione? «Per fare progressi – conclude Levy - su alcuni dei nostri problemi più difficili offrire più argomentazioni e prove non è sufficiente. Dobbiamo superare la profonda sfiducia che caratterizza le nostre società. E questo è un progetto essenzialmente politico. Dobbiamo riconoscere che questa sfiducia è troppo spesso giustificata: per esempio, le persone possono accettare certe teorie complottiste non fidandosi delle fonti ufficiali, e questo accade perché le istituzioni non hanno saputo rendere credibili quelle fonti. Superare la sfiducia richiede di offrire motivi per fidarsi, e ciò richiede un vero cambiamento politico».