Musica. I 70 anni di Fabio Treves: «Il mio blues nato in un convento di suore»
Il bluesman Fabio Treves, "il puma di Lambrate"
Potete scandagliare tutto l’universo musicale, ma uno vero e puro come Fabio Treves, statene certi, non lo troverete. Quest’araba fenice del blues è da sempre un passo avanti, come lo erano i suoi vecchi amici di “trani” Enzo Jannacci e Beppe Viola: per questo ha cominciato a festeggiare i settant’anni («li compio il 27 novembre, che sarebbe anche il compleanno di Jimi Hendrix ») da questa sera, nella sua Milano («concerto soldout al San Babila») e con la sua storica e imprescindibile “Treves Blues Band” che di anni invece ne ha “45”. È nata nel 1974, e questa si può considerare anche la data di nascita del blues in Italia. Perché prima di Fabio Treves e della sua band, da noi la maggioranza confondeva ancora il «blues, la madre» con il «figlio, il jazz».
«Oggi per fortuna il concetto è chiaro, ma ce ne è voluto di tempo affinché da genere di “nicchia” il blues diventasse popolare, anche più del jazz (persino per numero di festival in circolazione). E questo è il vero successo di cui vado fiero». Orgoglio e dignità di chi ha cominciato, nel deserto dei rockettari politicizzati postsessantottini e i jazzofili radical dei ’70, «con un gruppo di amici... Provavamo nella sala di un convento di suore, in via Ponzo. I patti erano chiari: alla fine delle prove stagionali un bel concerto solo per le ”sorelle” e le ragazze del convitto. Sì, – sorride – un’atmosfera tipo Sister act. Ma del resto questa è una musica che deve tanto ai canti di chiesa. E poi il blues ha una forte matrice femminile: basti ascoltare un capolavoro come Down Hearted Blues di Bessie Smith o la struggente Respect di Aretha Franklin, quello è il primo inno in difesa dei diritti delle donne».
Una musica che parte dalle piantagioni di cotone e dai ghetti neri americani, per arrivare fino all’ultimo borgo della provincia italica. «Perché il blues è contaminazione e noi bluesman veri andiamo a suonare ovunque ci chiamino. Io ho portato la mia armonica sul tetto dell’Istituto dei tumori di Milano, fino all’ultimo carcere del Sud. La passione e l’emozione che dai e che ricevi deve essere sempre la stessa, intensa, forte, ma soprattutto vera».
Si liscia la barba e si aggiusta il codino (le trecce da Asterix le ha tagliate da un po’) il “Puma di Lambrate”, come lo chiama il popolo delle notti in blues e i seguaci del suo programma in onda sulla radio web di LifeGate. «È il nomignolo che mi affibbiò un giornalista quando negli anni ’70 a Milano stava per arrivare John Mayall, alias il “Leone di Manchester”. E allora lui scrisse: “Ok, ma noi qui abbiamo Treves, il “Puma di Lambrate”». E il Puma da quel momento straripò musica, oltre il suo fiume meneghino e cominciò ad azzannare anche il video. «Renzo Arbore, numero uno assoluto, sottolineo “n.1”, nel ’77 mi invita nella sua trasmissione cult L’altra domenica (Rai 2) e da quel momento abbiamo iniziato a parlare di blues a milioni di italiani».
Una divulgazione incessante e appassionata quella di Treves, affiancato allora da «altri pionieri, come Roberto Ciotti e Guido Toffoletti. Pino Daniele e Edoardo Bennato sono stati i primi cantautori a esprimere nelle canzoni la loro anima blues». L’anima dell’uomo che suona e crede in una musica «che crea solidarietà e unisce. Chi picchia le donne, chi sporca la natura e le città, i bulli i cyberbulli, chi non accetta la diversità, non potranno mai capire e amare il blues. Io in tutti questi anni ho suonato in tanti luoghi di sofferenza, ho visto ragazzi in carrozzina sorridermi e stringermi la mano appena sceso dal palco e ho capito una cosa: che sono un uomo fortunato, perché sono un bluesman, cioè uno che si sente meglio solo quando anche gli altri stanno bene, grazie anche a questa musica».
La melodia dell’armonica più amata dagli italiani, e non solo. «Uno strumento così piccolo – mostra la sua armonica, una delle tante Hohner che possiede – eppure così grande, presente perfino in tutti i primi dischi dei giganti del poprock: da Love me do degli eterni Beatles a quello dei miei amatissimi Rolling Stones... Tra me e l’armonica è stato colpo di fulmine dopo aver ascoltato suonarla dal vivo Roger Daltrey, il cantante degli Who. Quel concerto a Milano venne aperto dai Primitives e anche Mal suonava l’armonica a bocca. Da allora è diventata una parte di me, il mio strumento vitale».
Lo strumento dell’immenso Sonny Boy Williamson II, «il mio idolo assoluto, un assolo dei suoi è una carezza al cuore. Andavo fino in Svizzera a comprare quei dischi in cui potevo ascoltare la sua armonica o quella di Paul Butterfield che, nel 1963, accompagnò Bob Dylan al Festival di Newport quando per la prima volta si presentò con una band elettrica». Memorie del Puma, che per i suoi compagni di avventura della Treves Blues Band è anche il "Signore degli aneddoti".
Un Lambrate in piena («il mio Mississippi») di ricordi, che si emoziona quando ripensa a quella notte unica e irripetibile del 1988 in cui duettò con «un genio, Frank Zappa. Un incontro reso possibile grazie all’amico Claudio Trotta che gli organizzava il tour italiano. Zappa è il più grande artista che abbia mai conosciuto, uno capace di passare dalla classica alla musica sacra fino al blues in maniera unica, straordinaria. Quando riascolto il disco live in cui presenta il “mio amico Fabio Treves”, be' è sempre un tuffo al cuore».
Gonfia il petto e il pelo candido il Puma, anche quando ripensa alla chiamata di Bruce Springsteen per aprire il suo concerto romano, nel 2016. «Sempre Claudio Trotta un giorno mi fa: “Fabio che ne dici se propongo al “Boss” di farti suonare con lui al Circo Massimo?”... Nemmeno a chiederlo. Be', momenti memorabili e poi gli abbracci e i complimenti sinceri di Bruce li porto dentro di me tra le cose più belle che mi siano capitate in questo lungo e fortunato percorso».
Un cammino costellato di incontri e collaborazioni fraterne. «Ogni volta che ho messo la mia armonica per abbellire i dischi degli altri è sempre nata spontanea e immediata una bella amicizia. È stato così con quel “poeta raro” di Pierangelo Bertoli, Ma anche con Elio e le storie stese con cui è stato un onore suonare ne L’album biango. Così come con Finardi, Vecchioni, Cocciante, Branduardi, Mina, Celentano... O duettare con le chitarre virtuose di Ivan Graziani o quella “blues, più che jazz” di Franco Cerri che per me è un padre (suo figlio Stefano, grande musicista, era un fratello), un punto di riferimento».
Un elenco sterminato di “questioni di feeling” che passano attraverso il suono di un’armonica che viaggia, «migliaia di chilometri l’anno, a bordo di un furgone» in compagnia dei suoi “blues brothers”. Un viaggio ininterrotto, per centinaia di concerti, registrando, nel frattempo, una ventina di album. È il cammino di un «uomo libero, perché tale è un musicista di blues». Un uomo riconoscente «soprattutto a mio padre, Gaddo Treves, neuropsichiatra e attore per i suoi amici: per Dino Risi recitò in Straziami ma di baci saziami, Vittorio De Sica lo volle ne Il giudizio universale. Papà mi ha trasmesso l’amore per il cinema e per la musica, mi dispiace solo che non abbia fatto in tempo a sentirmi suonare – se ne è andato via per sempre nel ’72 – ma lo sento sempre vicino, specie durante i concerti».
Treves ha pochi rimpianti («tipo non aver suonato nei dischi dei miei “quattro pilastri”: De Andrè, Battisti, Gaber e Jannacci») perché è un uomo che ha scelto di essere sempre se stesso e mai di apparire come un divo, mettendosi al servizio di tutti, specie dei più giovani. «Proprio ieri un ragazzo mi scrive sul sito della Treves Blues Band e io dopo cinque minuti gli rispondo. E lui mi riscrive: “Sei l’unico musicista – grande musicista, aggiunge lui – che mi ha subito prestata attenzione”. Ecco, essere attenti agli altri costa un po’ ma se lo fai con il cuore aperto ti ripaga di ogni fatica. Ai concerti se venissero solo i miei coetanei avrei smesso da un pezzo. E invece guardi giù e li vedi arrivare con figli e nipoti, e l’applauso finale che ti regala il “futuro” seduto in prima fila... è l’energia che manderà sempre avanti la mia anima blues».