Agorà

LE SFIDE DELLA STORIA. Europa, una visione comune per uscire dalla crisi

Andrea Riccardi lunedì 18 giugno 2012
Non possiamo nasconderci la crisi dell’Europa. Che si innesta su altre crisi, quella economica che attanaglia parecchi Paesi. Come uscirne? Non è il caso di parlare di ricette. Anche se il messaggio spesso veicolato oggi è: si esce dalla crisi da soli, concentrandosi su di sé. C’è un fondo umano della crisi, forse la madre delle crisi: la solitudine di tanti europei. È la condizione di non pochi, quando tante reti dello stare insieme si sono dissolte: i partiti politici, le associazioni e la famiglia. Oggi gli europei sono più soli nella vita e si pensano più soli. Del resto ci troviamo innanzi a una cultura marcata dall’individualismo, con ricadute nella vita personale, nel lavoro e ben al di là. La crisi dell’idea di un destino comune europeo si colloca in un quadro di crisi della comunità di vita e di destino. Questo ha conseguenze nei singoli Paesi. Una di queste – non la meno importante – è la mancanza di visioni per il futuro. C’è incredibile bisogno di visioni. Perché le visioni sono le icone di speranza da contemplare per non cadere nel pessimismo.Infatti, se una concezione della vita tutta individuale può avere momenti di esaltazione o di soddisfazione, il vuoto di senso comunitario però ingenera un clima di pessimismo. Così noi europei, un po’ incupiti, rischiamo di rinunciare a fare la storia: «passare alla storia senza più farla» –scrive Jürgen Habermas – ovvero «congedarsi dalla storia» – dice Benedetto XVI. Si teme un mondo troppo grande e complesso. Sembra che ci si debba difendere dalla storia e dal mondo. Questo è stato l’atteggiamento dopo l’11 settembre 2001, il giorno dei terribili attentati agli Stati Uniti. Dobbiamo difenderci da un nemico e da una storia troppo aggressiva. Il filosofo francese, Alexandre Lacroix, s’interroga: «Siamo come i romani del tardo impero, arrivati all’ultimo capitolo della nostra gloriosa (e violenta) storia? Edonisti e cinici, incuranti delle leggi e di Dio, incapaci di prendere qualcosa sul serio tranne noi stessi, non in grado di proiettarsi nel futuro, impigriti dalle comodità, superficiali e viziati, ci meritiamo di essere superati da altri popoli, più giovani, più ambiziosi, più forti?». L’Europa è un continente in declino? Non più il centro del mondo in un mondo senza centro. C’è voglia di ridimensionarci per rassicurarci, di recuperare i confini. È un’illusione. La gran parte dei Paesi europei non potranno affrontare da soli le sfide globali, la crisi economica, il confronto con i giganti asiatici. Nessuno s’illuda. Se non saremo insieme, i Paesi europei saranno quantité négligeable. Così i nostri valori si diluiranno nelle correnti della globalizzazione: sarà una perdita per il pianeta in libertà e umanesimo. Non possiamo rassegnarci al tramonto. Siamo a cinquant’anni dal Vaticano II. Lo ricordiamo non perché vecchi nostalgici. Il Concilio resta il nutrimento di una visione del futuro. L’11 ottobre 1962, aprendo il Vaticano II, un ottantunenne, Giovanni XXIII, disse parole di speranza: «Spesso ci vengono riferite voci che… non sono capaci di vedere altro che rovine e guai. Che vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con il passato, sono peggiori. Ci sembra di dover dissentire da questi profeti di sventura. Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose…». Cinquant’anni dopo, dissentiamo dai profeti di sventura: riguardo al declino europeo e riguardo al fatto che la cultura individualistica debba inesorabilmente prevalere. Tra il Concilio e l’Unione europea c’è uno stretto legame. Il Vaticano II fu, dal 1945, il primo evento paneuropeo, che riunì vescovi delle due parti, nonostante la Guerra fredda. Inoltre proiettò – ben prima si parlasse di globalizzazione – i cristiani europei nel mondo e inaugurò l’ecumenismo. Il Vaticano II è una memoria di speranza. La speranza non negozia con il pessimismo. Non possiamo aderire al “si salvi chi può” dello spirito del tramonto. I cristiani sono il popolo dell’unità e della speranza.L’unità. Penso alle nostre storie. Ogni movimento é un sogno di universalità e unità. I movimenti sono diversi non per dividere, ma per unire. Chiara Lubich, un’anziana che non ha mai smesso di sperare, diceva: nell’unità, anche se non è religiosa, c’è sempre l’anima nostra. Nell’unità c’è un’anima cristiana e profondamente umana. Saremo noi quelli che rassegnano, senz’anima, allo sfrangiamento della comunità a tutti i livelli? La risposta è mettersi al servizio di un sogno di unità: vivere e comunicare la speranza. La più grande miseria europea è la mancanza di speranza. La storia ci chiama a vivere tempi complessi e difficili. Non terribili, non disperati. Si può ancora agire, cambiare. Se ci sono gravi motivi di preoccupazione, anche per la sofferenza di tanti Paesi europei in crisi economica, si deve generare un clima di simpatia e di solidarietà, un senso del destino comune deve risorgere, reti sociali debbono rinascere. Scrive Paolo ai Romani: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori…». Nelle difficoltà il nostro può essere il tempo della speranza, capace di far emergere il meglio: «Se saremo uniti avremo un futuro, faremo del bene al mondo e a noi stessi». Ma chi siamo noi? Ognuno è sempre piccolo di fronte alle chiamate della vita. Diceva Hillel, maestro ebraico del tempo di Gesù: «Quando mancano gli uomini, sforzati tu di essere uomo!». Quando mancano gli uomini e le donne dell’unità, sforziamoci noi di esserlo con speranza. Così la cultura dell’unità, vissuta, pensata, comunicata, può rigenerare un’anima nella nostra Europa.
(Intervento pronunciato all’incontro “Insieme per l’Europa”, svoltosi a Bruxelles il 12 maggio 2012)