Agorà

Storia. Europa: l'alba della modernità è un turbine di riforme

Franco Cardini sabato 4 febbraio 2023

Pubblichiamo una parte del capitolo conclusivo del volume di Franco Cardini Le vie del sapere, con cui la casa editrice il Mulino inaugura la nuova collana "Ritrovare l'Europa".

Nell’ultima fase del periodo che siamo soliti chiamare “Medioevo”, vediamo maturare un cambiamento profondo rispetto all’epoca appena precedente. Per questo torno di tempo, parlare di “Umanesimo civile” non ha ormai più senso; le condizioni erano troppo diverse dal periodo a cavallo fra Duecento e Trecento. Ne stava nascendo un altro, del resto non meno importante, che si sarebbe esercitato nell’ombra – o nel fasto luminoso delle grandi occasioni – delle corti e delle accademie, nelle biblioteche principesche e prelatizie nonché negli atéliers nei quali si concepivano opere d’arte spesso immortali ma non più tanto sotto committenza, bensì più spesso all’esplicito servizio dei potenti.

Ne è esempio fulgido, nella Firenze dell’età compresa fra gli anni Trenta e Sessanta del XV secolo, il banchiere e imprenditore Cosimo de’ Medici (Cosimo il Vecchio): padrone splendido e a modo suo modesto della città e della politica del suo tempo, tenace custode dell’austerità repubblicana che amava vivere nella sua casa – fosse pure uno splendido palazzo cittadino – e che di rado accettò di accedere a pubbliche cariche. Attento a non figurare mai formalmente in primo piano, nella cappella privata della sua dimora – il primo esempio al mondo di cappella familiare in cui fosse consentito il culto – fece tuttavia affrescare da Benozzo Gozzoli una solenne Cavalcata dei Magi nella quale figurava uno splendido giovane issato su un bianco cavallo e abbigliato di vesti cavalleresche dorate e argentee. Quel ragazzo dai lineamenti e dalle proporzioni efebiche, simbolo del genio familiare mediceo, era il ritratto ideale di suo nipote Lorenzo di Piero, allora – nel 1459 – appena decenne, che sarebbe stato suo erede e per il quale l’anziano banchiere sognava un destino regale. E tale fu: nella sostanza se non nella forma. L’immagine di quel ragazzo rappresentava in realtà un molto abbellito Lorenzo il Magnifico in veste del Mago portatore della mirra (una spezia che ben si addiceva ai Medici e alludeva pertanto al nome della famiglia, così come il suo motto, «S.E.M.P.E.R.», rinviava ai poteri di essa contro la corruzione e la putrescenza della carne).

Quello stesso ragazzo, dal Gozzoli ritratto nella medesima veste d’onore indossata nella tradizionale cavalcata dell’Epifania per le vie di Firenze nella notte tra il 5 e il 6 gennaio com’era diritto del “Magnifico Signore” della festa, sarebbe divenuto a sua volta, dopo la scomparsa del grande avo e quella, immatura, del padre, “cripto-signore” di Firenze. Ma a differenza degli altri due, della signoria avrebbe assunto apertamente anche se non esplicitamente, ufficialmente, istituzionalmente e simbolicamente la sostanza; e avrebbe fornito alla civiltà umanistica tutta il segnale di un netto, radicale mutamento di rotta appoggiando con forza il lavoro di quell’Accademia platonica fondata dall’avo Cosimo presso la villa suburbana di Careggi dove, dal 1462, artisti, filosofi e letterati usavano riunirsi per pacate discussioni [...]

Il sodalizio platonico laurenziano costituì un esempio per altre istituzioni di simile natura: così anche l’Accademia romana, fondata da Giulio Pomponio Leto, che – soppressa in quanto accusata di neopaganesimo – venne riaperta nel 1471 da papa Sisto IV il quale nella sua Cappella Sistina e nel programma iconografico che l’adorna, affidato a un gruppo di artisti fiorentini ai quali si sarebbe aggiunto anche Michelangelo e ispirato dal teologo pontificio ficiniano Egidio da Viterbo sostenitore di una prossima riforma della Chiesa, volle ribadire il concetto della dignità dell’uomo in quanto essere creato a immagine di Dio [...]

Al di fuori dell’Italia, la lezione di Lorenzo Valla influenzava il frate agostiniano Martin Lutero: il metodo filologico messo a punto dal primo fu dal secondo applicato, alcuni decenni più tardi, nell’esame della Scrittura e nella distruzione del principio di autorità nell’interpretazione di essa. Coscienza della modernità e Riforma protestante hanno proceduto di pari passo: Valla e Lutero stanno a dimostrarci la sconvolgente profondità dell’esperienza umanistica, nata dalla retorica e dalla stilistica ma in grado di determinare un vero e proprio mondo nuovo in ogni senso, dalla politica alla religione.

Il paradigma della maturità filologica del Valla insieme al De hominis dignitate di Pico della Mirandola, ispirato al neoplatonismo ficiniano e all’esoterismo cabalistico, influenzò anche Erasmo da Rotterdam dopo aver toccato poi il delicato tessuto mistico della devotio moderna e penetrò il solenne linguaggio della prosa politica dell’erasmiano Carlo V d’Asburgo, al quale – adolescente nel 1516 – Erasmo aveva dedicato l’Institutio principis christiani. Questa sollecitazione trovò un immediato riscontro nell’arte umanizzando definitivamente il Divino e aprendosi attraverso il culto dell’eroismo e dell’eccellenza umana ai temi laici e mondani, prima espressione dei quali fu il ritratto personale che non a caso riscopriva un genere greco-romano ed era strettamente collegato allo sviluppo del genere letterario della biografia.

L’eredità di Marsilio Ficino e di Pico fu raccolta però an da un personaggio ben diverso da quelli or ora evocati, cioè da Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim. La sua vicenda personale si incontra con gli anni difficili che aprirono il Cinquecento: la guerra in Italia, dove pure Agrippa soggiornò, l’inizio della Riforma, l’avvio più potente della caccia alle streghe. Medico, filosofo, mago, nel De occulta philosophia Agrippa mette in scena, sulla scorta del Picatrix e dei trattati di negromanzia, una lunga lista di rituali atti a controllare l’universo demonico. Attraverso gli insegnamenti dell’umanista tedesco Johannes Reuchlin, che secondo il modello fiorentino univa la tradizione cabalistica al neoplatonismo cristiano, Agrippa giungeva anche a raccordarsi alla sintesi ficiniana. Difatti, proprio come in Marsilio Ficino, la celebrazione del magus non poteva prescindere da capacità operative e di magia cerimoniale.

Le sue tesi controverse gli procurarono l’odio di molti, in particolare dei domenicani, ma Agrippa passò durante la sua vita di corte in corte, inclusa quella di Carlo V, trovandovi rifugio e protezione. Fu coinvolto anche nelle controversie sulla caccia alle streghe, che nella prima metà del Cinquecento cominciava a mietere molte vittime: nel 1518, dopo un anno trascorso fra Torino e la Savoia, si recò a Metz accettando l’invito della città che lo voleva suo consigliere, ma poco dopo fu coinvolto da un caso di stregoneria: una donna di un paese vicino era stata accusata e incarcerata, e Agrippa intervenne a suo favore imputando all’ignoranza dei suoi persecutori, laici e religiosi, l’idea che una povera ragazza potesse aver commesso le atrocità di cui era accusata. L’intervento ebbe probabilmente un esito positivo, ma coinvolto in troppe polemiche Agrippa preferì lasciare Metz e continuò a vagabondare da un luogo all’altro. Morì a Grenoble nel 1535, dopo essere entrato in contatto, ricevendone un’impressione positiva, con le tesi di Lutero.

Lasciò un erede intellettuale nel suo discepolo Johann Wier, medico olandese che all’epoca della sua scomparsa aveva soltanto 20 anni. Wier si sarebbe distinto più tardi come difensore delle streghe, scrivendo che le loro confessioni, generalmente estorte, non erano altro che frutto dell’immaginazione e della melancolia, come allora venivano chiamati la depressione e il delirio. Contro queste idee avrebbe replicato con veemenza uno dei più grandi intellettuali del Rinascimento, il giurista e politologo francese Jean Bodin, autore dei sei libri De la République (1576) che al princeps legibus solutus conferiscono solida e argomentata legittimità politica, nonché sostenitore della tolleranza religiosa.