Sembra che il vessillo dello scienziato necessariamente ateo, o quantomeno agnostico, sia stato raccolto dal professor Umberto Veronesi, autore di
Credo nell’Uomo, non in Dio, un e-book pubblicato recentemente nella biblioteca online del “Corriere della Sera”. L’argomento è noto: lo scienziato, che utilizza il metodo scientifico per l’indagine del reale attenendosi ai soli dati sperimentali, dovrebbe astenersi dal credere in un Dio la cui esistenza non è dimostrabile con lo stesso metodo. Curiosamente nel libro si afferma anche che la scienza non si interessa alle domande di senso – perché esiste qualcosa? – ma si limita a chiedersi come ciò che esiste funziona e si manifesta. Affermazione perfettamente condivisibile, ma che conduce a un pasticcio logico quando venga considerata unitamente alla precedente: sembrerebbe che uno scienziato, per il solo fatto di aver scelto di esserlo, non dovrebbe interessarsi alla trascendenza. Poco conta che scienziati del livello di Planck, Einstein, Heisenberg, Lemaitre, Pauli e molti altri abbiano indagato con passione per tutta la loro vita non solo le “leggi” della natura, ma anche il senso ultimo dell’esistenza.
In effetti, il libro non brilla per originalità e profondità delle argomentazioni, tanto che alla fine della breve lettura si prova una certa nostalgia per Nietzsche o per Feuerbach. Vale comunque la pena di analizzare le conseguenze dell’etica “laica” presentata con tanta sicurezza da Veronesi, soprattutto per vedere se la scienza non possa dare qualche contributo più costruttivo dei pareri personali dell’oncologo alla definizione delle nuove problematiche che l’uomo d’oggi è chiamato ad affrontare.
La proposta di etica “laica” esclude, coerentemente per un ateo o un agnostico, la prima parte dell’annuncio evangelico –
Shemà Israel, amerai il Signore tuo Dio – e ne fa invece propria la seconda, anche se leggermente modificata – “rispetterai” il prossimo tuo come te stesso. Nell’opinione dell’autore l’etica “laica” avrebbe un valore superiore a quella cristiana, perché totalmente libera, non condizionata da una aspettativa di un premio futuro – il Paradiso – o di un castigo eterno: lo si evince leggendo il passaggio nel quale afferma che, nella sua esperienza, i malati terminali non credenti affrontano la morte più serenamente di quelli credenti. È un’annotazione interessante che, al di là della sua discutibile significatività statistica, dovrebbe farci riflettere su quanto noi cristiani abbiamo contribuito a distorcere il gioioso messaggio evangelico insistendo più sul “fuoco dell’Inferno” che sul significato della speranza salvifica. In quest’ottica, cerchiamo di analizzare le conseguenze di una scelta etica così “dimezzata” che agli effetti pratici, al pari della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, sembra allinearsi con quella cristiana.
Considerare ogni uomo e ogni donna “uguali”, senza distinzione di razza, religione, cultura, pensiero è “giusto” sia per il non credente – su basi puramente razionali suffragate dalla scienza – sia per il cristiano, il quale però aggiunge come principale motivazione la consapevolezza di essere tutti figli generati e amati dallo stesso Padre. Ecco la fondamentale differenza dell’etica cristiana rispetto a quella totalmente laica: quest’ultima si fonda su un “patto” tra uomini e come tale sarà sempre relativa alla situazione storico-culturale e agli uomini che l’hanno enunciata, mentre quella cristiana nasce dalla “rivelazione” che la creazione è un atto di Amore che, se liberamente riconosciuto, ci permette di cooperare con il Creatore agendo secondo un principio etico universale.
La differenza operativa delle due etiche emerge quando ci si discosta dal semplice criterio di uguaglianza tra uomini e donne – principio accettato da tutti – e si passa alla questione più delicata del rispetto della persona in tutte le condizioni e fasi della vita. Lo dimostra Veronesi stesso quando definisce “inaccettabile ingerenza” il parere negativo espresso alla luce dell’etica cristiana sulla proposta di referendum abrogativo della legge 40, mentre il suo parere personale, presentato come antesignano della scienza, sarebbe invece perfettamente accettabile. Dal punto di vista della logica dovrebbe essere proprio il contrario, perché se le religioni e la filosofia hanno competenza a esprimere pareri etici, così non è per la scienza sperimentale che si occupa, per suo statuto, solo di fenomeni misurabili. A meno che non si voglia sostenere il principio che tutto ciò che è scientificamente e tecnicamente possibile è anche eticamente lecito: le conseguenze paradossali di un tale principio, pur senza arrivare ai casi estremi della bomba atomica o degli “uteri in affitto”, sono evidenti.
Sia chiaro, nessuno vuole rigettare a priori le innovative e a volte stupefacenti possibilità che la scienza – in particolare la medicina – ci offrono, ma proprio perché le conseguenze a lungo termine di certe scelte, soprattutto quelle che più si avvicinano alla radice della vita, sono difficilmente prevedibili, è necessario che le linee guida abbiano veramente valore universale e non siano lasciate all’alea di un referendum o al giudizio personale di un magistrato. Veronesi nel suo libro non affronta direttamente questo problema, limitandosi a esaltare la scienza e l’etica “laica” e, pur ammettendo le positive dichiarazioni post-conciliari della Chiesa nei riguardi della scienza e dell’evoluzione, non sembra intravedere la possibilità di un percorso comune.
Cosa possono fare scienziati e teologi di buona volontà per evitare simili situazioni di stallo? Una via che mi sembra percorribile è quella di impegnarsi ad analizzare con coraggio le implicazioni teologiche ed etiche di quanto la cosmologia attuale ci sta rivelando. Il quadro evolutivo unitario, ormai ben consolidato, ci dice che la nostra esistenza e la nostra coscienza sono intimamente legate all’evoluzione del cosmo che, sostenuto nell’esistenza assieme al tempo e allo spazio, si è sviluppato lungo un periodo di circa quattordici miliardi di anni in forme e strutture sempre più complesse, seguendo inconsapevole le leggi che lo governano, secondo “caso e necessità”, come affermava Jacques Monod (citato da Veronesi).
Quando la complessità – almeno su questo pianeta – ha raggiunto la capacità di autocoscienza, essa si è subito posta domande di senso: da dove vengo? Chi mi ha generato? Qual è il mio destino? Ma è solo negli ultimi tempi che l’uomo, grazie ai progressi di conoscenza, è riuscito a comprendere la globalità e unitarietà dell’evoluzione intravedendone i meccanismi e, di fatto, a interrompere, limitatamente a ciò che avviene sulla Terra, il suo corso “naturale” e inconsapevole. Le mutazioni genetiche e l’ambiente, che durante miliardi di anni hanno plasmato la storia dell’evoluzione, sono oggi nelle nostre mani, possiamo indirizzarle a nostro piacimento. Tra non molto saremo in grado di generare parti del nostro corpo e sostituirle a quelle malfunzionanti, forse potremo aumentare la nostra capacità cerebrale o di memoria... Chi può dire quali di queste opzioni siano veramente benefiche, a lungo termine, per l’umanità?È un problema di difficilissima soluzione, sia per il credente sia per il laico, e già oggi si nota la confusione: si scende in piazza contro gli Ogm e la sperimentazione sulle cavie (Veronesi è favorevole ai primi e vuol limitare ma non escludere del tutto la ricerca sugli animali) e al tempo stesso si difende come diritto inalienabile la possibilità di sperimentare sugli embrioni umani ed eliminarli se le “condizioni” non sono accettabili dallo sperimentatore, genitori inclusi.
La limpida indicazione del messaggio etico cristiano, coniugato con le conoscenze scientifiche acquisite, ci rende consapevoli oggi più che mai di cosa significhi l’invito genesiaco «andate e dominate la Terra»: significa diventare co-creatori del mondo, modificare, se possibile e senza timore, l’evoluzione, adottando però lo stesso criterio del Creatore, amando cioè tutto il creato e aspirando a esclamare con Lui alla fine di ogni giornata: «E vedemmo che era cosa buona». Naturalmente avere un principio guida, per quanto chiaro e forte esso sia, non vuol dire avere in tasca la soluzione per ogni problema e il cristiano deve sapersi confrontare con coraggio e umiltà con le diverse posizioni per discernere la via da seguire.
Questo è il dialogo serrato che dovrebbe instaurarsi tra teologia e scienza, la teologia stimolando la scienza a valutare le conseguenze globali a lungo termine del suo operare, senza fermarsi a risultati parziali, e la scienza provocando la teologia a dare senso al progredire inarrestabile della conoscenza. Arroccarsi su posizioni esclusive, invocando un neo-illuminismo “laico” che non ammette “interferenze”, non solo è anacronistico, ma non sembra neppure di grande utilità per l’uomo.