Uno le guarda, che danzano, che sorridono, che festeggiano, che sollevano in alto le insegne di un tennis particolare, costruito sull’amicizia, sulla forza comune, sulle ore trascorse assieme, in campo, in allenamento, in viaggio. E il pensiero non va alla loro ennesima vittoria, che è bella come le altre, ma era forse più attesa delle altre, più ovvia. Piuttosto al fatto che due ragazzine italiane possano permettersi di dire, a questo punto della loro carriera, ciò che nessuno mai in Italia ha pensato fosse possibile, nemmeno i Grandi che poi grandi lo sono stati per davvero: «Ci manca solo Wimbledon e poi abbiamo conquistato il Grand Slam del tennis». Sì, d’accordo, non sarebbe il vero e proprio Grande Slam, che ha precisi confini spazio-temporali e deve prendere forma nell’arco di una stagione, ma un qualcosa che molto gli si avvicina, e al quale hanno attribuito un nome ufficiale per accomunare e non scontentare i pochissimi che lo hanno centrato.Lo chiamano il “Career Grand Slam”, e annuncia al mondo la vittoria nelle quattro prove massime del tennis, ottenute nell’arco di una carriera. Il Grand Slam vuol dire dominio assoluto. Il Career Grand Slam significa invece vincere a lungo. Come stanno facendo loro due, Sara Errani e Roberta Vinci, sempre più numero uno della specialità di coppia, vittoriose stavolta agli Australian Open, dopo aver conquistato Parigi e Us Open un anno fa. Quattro finali (la prima a Melbourne un anno fa) e tre vittorie. Quando lo centrò, non sapendo come definirlo, Serena Williams lo ribattezzò il “Serena Slam”. Poi vennero il Rafa Slam e il Fed Slam. Oggi, due ragazze italiane hanno a portata di racchetta il “Cichi Slam”, dal loro soprannome, le Cichi, che significa nulla e tutto, perché in quel nomignolo, c’è scritta per intero la storia della loro amicizia.«Cichi sa darmi una mano», «Se Cichi scende, io salgo, ci compensiamo», «A Wimbledon vogliamo essere protagoniste, ovvio. Ma non dobbiamo farne una malattia, vero Cichi?»... Sara e Roberta si allenano anche quando vanno a comprare qualcosa assieme, nella parigina Rue de Rivoli o sulla Sesta Avenue a New York, intorno al Circus londinese di Piccadilly o lungo la Elisabeth Street nel cuore di Melbourne. È l’abitudine a condividere pensieri e parole che le rafforza. Eppure dicono in tanti che l’amicizia non sia così necessaria al tennis. E aggiungono esempi, mai smentiti, di doppi vincenti nati nel più fragoroso disaccordo. Gente che non si salutava nemmeno all’ingresso sul campo, poi alzava la coppa assieme. Ma l’amicizia delle due azzurre è di un tipo estremamente favorevole ai connubi sportivi: è amicizia solidale, di quelle che sanno andare oltre la già difficile arte del comprendersi. Le due non rinunciamo mai a darsi una mano, e questo le ha portata a crescere insieme, a migliorare le debo-lezze, a far diventare Roberta più accorta e Sara più aggressiva, e ad avere, le due, sempre motivazioni altissime, perché nessuna vorrebbe mai essere d’impaccio all’altra. Così, la pessima spedizione italiana nella Terra a Testa in Giù, Down Under, la chiamano così l’Australia, cominciata con 9 eliminazioni su 11 in singolare al primo turno, si chiude con la vittoria di Sara e Roberta in doppio, sulle australiane Barty e Dellacqua ), 6-2, 3-6, 6-2. «Un match più difficile del previsto… Non come quello contro le Williams, ma pieno di insidie, e contro due tenniste di casa ». Curioso: in campo c’erano tre italiane (la Dellacqua è di chiare origini paesane), mentre due giorni fa un altro doppio azzurro, questa volta al maschile (Bolelli e Fognini) ha raggiunto la semifinale. Sarà che gli italiani da individualisti si stiano trasformando in doppisti?