Architettura. Costruire e rinnovare chiese per abitare l'attualità
La riqualificazione della chiesa del monastero di San Francesco a Santpedor, in Spagna, opera dell'architetto David Closes
Negli ultimi decenni si è riflettuto poco sul fatto che la Chiesa, popolo in cammino, è una realtà in continua trasformazione. Vi è in primo luogo un mutamento della fede nella comunità cristiana: la fede cambia, non solo nel modo di esprimersi, ma perché assume altri accenti, altre immagini di Dio e di Cristo. Il “Credo” è sempre lo stesso, eppure nessuno di noi crede nello stesso modo in cui credeva da giovane, o come si credeva prima della rivoluzione antropologica, culturale e teologica degli anni ’60. Si registra anche un mutamento della società, un passaggio dall’assetto della cristianità a una situazione inedita, negli ultimi secoli in cui la Chiesa è tornata a essere una comunione di minoranze, senza più poter "reggere" la società, ormai secolarizzata.
Si potrebbero mettere a fuoco altri mutamenti connessi a quelli appena enunciati. Ma quello che più mi interessa, mi intriga e, per certi versi, mi tormenta, è il mutamento della chiesa edificio, soprattutto nel modo di abitarla da parte dei cristiani. Questo aspetto mi pare una parabola appropriata ed eloquente del mutamento in atto, perciò vale la pena soffermarsi su di esso. Si faccia lo sforzo di riandare con la mente alla topografia della chiesa, praticamente di tutte le chiese cristiane esistenti al momento della grande rivoluzione degli anni ’60. Si partiva dal presbiterio, spazio sentito come doppiamente sacro, davanti all’altare maggiore e delimitato dalla balaustra. Era lo spazio riservato ai presbiteri, ai chierici e ai chierichetti. Era lo spazio in cui si celebrava la liturgia cattolica, spazio vietato ai fedeli, soprattutto alle donne. In esso avveniva ciò che era decisivo, i cui attori erano presbitero e chierichetti. L’altro spazio fondamentale era la navata, riservata ai fedeli laici, uomini da una parte e donne dall’altra. Essi non erano attori della liturgia ma, impegnati in pratiche devozionali, tra cui eccelleva il rosario, “assistevano alla messa”. Non rispondevano agli inviti del presbitero, compito riservato ai chierichetti. Durante la settimana la navata era quasi vuota e in essa comparivano solo due o tre suore e i parenti del morto per il quale si “diceva messa”. La domenica, invece, la navata era colma ma passiva, silente, eccetto che per qualche canto popolare, soprattutto di devozione mariana.
Veniva poi il terzo spazio, in fondo alla chiesa, alla sua soglia: qui per tutto il tempo della liturgia sostavano alcuni uomini che entravano e uscivano, cristiani della soglia che non osavano assistere a una messa né tanto meno comunicarsi. In alcune chiese c’era anche un atrio al riparo dalla pioggia, dove si sostava a salutarsi, a scambiarsi qualche parola: anche quanti lo frequentavano erano cristiani, ma non osavano entrare in chiesa. Infine c’era la piazza, dove tutti convenivano per l’ora della messa domenicale: qui si vivevano le contrapposizioni tra cattolici e comunisti, cristiani e atei...
Ebbene, oggi la topografia dell’abitare la chiesa si è profondamente trasformata, anche se non si sono trasformati i muri della chiesa. Il presbiterio si è svuotato e quasi ovunque il presbitero celebra da solo, sovente senza chierichetti. A volte il presbiterio è vuoto anche dell’altare, che è stato eretto fuori, all’inizio della navata (con risultati a volte discutibili). Quest’ultima non è più piena come un tempo, ma quanti la abitano non assistono più alla messa ma vi partecipano, in qualità di assemblea più consapevole, coinvolta nella liturgia, celebrante. Sì, oggi la navata dà un segno del popolo di Dio, indica un’assemblea che è resa corpo del Signore e perciò nel suo cammino pellegrinante verso il Regno celebra, invoca, canta, rende grazie. Sulla soglia ci sono molti in ricerca, che osservano e si chiedono se mai possano fare parte di quell’assemblea, se ciò che vi si celebra è per loro significativo ed eloquente. E così soglia e atrio sono oggi abitati più di ieri: in ogni caso, esprimono bene la situazione di gente che si dice cristiana, ma non partecipa alla vita della comunità, non partecipa ogni domenica alla liturgia, ma vive nel cuore sentimenti cristiani, legge il Vangelo, frequenta talvolta luoghi come le comunità monastiche, prende parte a eventi religiosi… Quanto alla piazza, in essa non vi sono più contrapposizioni, perché l’ateismo è morto di una dolce morte e quanti dicono di non essere credenti in Dio aggiungono però che non possono neppure dire che Dio non esista.
Dunque il mutamento è avvenuto e avverrà ancora. Di questo occorrerebbe che liturgisti, architetti e pastori prendessero più coscienza, perché tale processo ha delle implicazioni: liturgiche certamente (quale liturgia in un mondo così delineato?), ma anche architettoniche (quali spazi apprestare e per chi?). In quest’ottica, è utile riflettere su un altro elemento, connesso a quello appena discusso: con quale stile affrontare la necessità della costruzione di nuove chiese o dell’adeguamento di quelle esistenti? Spesso accade che l’architetto consegni un’opera d’arte approvata dai committenti, ma che poi, così com’è, non riesce a essere abitata dal popolo di Dio. La gente non viene aiutata a capire il contemporaneo, ma è facilmente assecondata nelle sue devozioni legittime, che potrebbero però tradursi in immagini coerenti con l’architettura e non invece offensive per l’opera d’arte e per una spiritualità cristiana che è tale se sa cantare anche la bellezza.
La comunità cristiana è soggetto integrale e deve poter abitare lo spazio liturgico con la sua sensibilità, che però va sempre aiutata, se la si vuole rendere coerente con ciò che la fede della Chiesa esprime oggi. Questo significa che i destinatari devono essere resi partecipi del progetto, devono accompagnare la costruzione e ascoltare dall’architetto la sua intenzione, ciò che egli intendeva esprimere, come ha obbedito alle urgenze liturgiche cristiane e alla confessione di fede del popolo di Dio. Ma non deve avvenire che, dopo la consegna dell’opera, la gente, e con essa quanti sono deputati al culto, la stravolgano e la rendano “mostruosa”, cioè non coerente con il tutto.
Infine, solo un rapido accenno all’adeguamento delle chiese, operazione necessaria a volte, non sempre. Ci sono chiese che sono opere d’arte dei secoli passati e non ammettono adeguamenti alla riforma liturgica attuale, soprattutto quelle post-tridentine. In ogni caso, la trasformazione non deve, neppure in nome della novità della riforma liturgica, stravolgere ciò che è arte ed è essenziale all’edificio chiesa. Al riguardo non si possono indicare regole generali, ma certo si possono avanzare alcune perplessità: che senso hanno, per esempio, quelle cattedre episcopali che si appoggiano all’altare tridentino e spesso oscurano il tabernacolo, così che, quando il vescovo vi si siede, la sua testa copre la porticina del tabernacolo attorniato da angeli? Dare vita a luoghi del passato significa non offenderli, non stravolgerli ma, se possibile, inserire in essi solo elementi nuovi veramente necessari e coerenti con l’insieme della chiesa e con il suo stile.
Nessuna mummificazione dell’esistente, nessuna ideologia conservatrice o tradizionalista, ma un’intelligente trasformazione che, nella logica cristiana, deve essere sempre trasfigurazione, significativa ed eloquente per il popolo cristiano. Abitare una chiesa significa non solo occuparne lo spazio, ma prendersi cura dello spazio, dell’edificio, dell’arte che in essa è testimoniata: infatti, l’edificio chiesa e il modo di abitarlo edificano la Chiesa di Cristo.