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Musica. Gli 80 anni di Enrico Rava: «Il jazz? Vivere in una perenne sorpresa»

Andrea Pedrinelli martedì 20 agosto 2019

Enrico Rava (Ansa / Guido Gaito Ufficio Stampa)

«Che effetto fanno gli ottant’anni? A dir la verità è importante non pensarci troppo: sennò mi preoccupo…» Enrico Rava sorride sornione, quando si affronta il tema del suo 80° compleanno: eppure il giorno 24 al Castello di Gradara ci sarà addirittura un concerto- evento per festeggiarlo, una data extra di “Fano jazz”. E per l’occasione il complesso nominato “Rava Special Edition”, col trombettista ovviamente leader, sarà composto non solo dai sodali del suo quartetto (Guidi pianoforte, Diodati chitarra, Evangelista contrabbasso, Morello batteria), ma pure dal sassofonista Bearzatti, uno dei tanti suoi “allievi”. Perché è impossibile, non celebrare colui che ha aperto le porte del mondo al jazz italiano con la sua straordinaria avventura a New York: dove arrivò men che trentenne nel ’67 («da unico italiano, ed eravamo massimo cinque europei») e lavorò a lungo fra storici lp di Carla Bley e date con Steve Lacy, Archie Shepp o altri mostri sacri. Rava è nato a Trieste il 20 agosto 1939 ma ha scoperto il jazz a Torino, prima da trombonista in una banda poi avendo «l’apparizione» di Miles dal vivo nel ’57: sono più di una quarantina i dischi da lui incisi, e per l’80° il 6 settembre vedrà la luce Roma, il più recente. Inciso live a novembre vede Rava (al flicorno) col grande sassofonista di Cleveland Joe Lovano, il contrabbassista Dezron Douglas, Gerald Cleaver alla batteria e ancora Giovanni Guidi al piano: fra pezzi suoi ora gentili ora tesi, altri di Lovano umbratili o funk e uno strepitoso medley finale di storia jazz.

Rava, agli ottant’anni non ci pensa: ma li festeggia?

Suonando, certo. La passione non s’è spenta anche se il resto, dai viaggi agli alberghi, ora mi è quasi insopportabile. Però il palco mi dà sempre gioia, col suo senso di comunione con gli altri musicisti.

Che cosa farà nella serata di Gradara?

Non faccio mai scalette prima dei concerti: mi piace sorprendermi ogni sera, fuggire ogni routine.

Com’è stata l’esperienza con Joe Lovano?

Avevamo fatto già un tour anni fa. Abbiamo cercato di creare cose belle partendo da visioni simili della musica. E avremmo dovuto incidere in studio, ma la registrazione della penultima serata del tour 2018 ci è piaciuta tanto, che alla fine uscirà quella.

Lei ormai suona quasi solo il flicorno: perché?

La tromba non è uno strumento per vecchi, questo è il problema! È duro, ostile, col flicorno invece mi sento a mio agio e il suono è sempre il mio, quanto esce è il suono dell’anima a prescindere dallo strumento. Le sensazioni che ho adesso dalla tromba non mi piacciono, pur non escludendo di tornarci in futuro… Anche se non so quanto ne ho: tocco ferro.

Insiste su questo tasto eppure è sempre in pista…

Ha ragione. In effetti non conosco coetanei che facciano Capalbio-Avellino-Milano-Germania-Belgio fra auto e aerei, come ho fatto io nei giorni scorsi. Fermandomi per esami medici e infiltrazioni, pure. Ma suonando dimentico tutto: e forse suono tanto apposta ad aprire più parentesi di gioia nella mia vita...

Roma esce per ECM che festeggia anch’essa il 50°: che cosa ha dato al jazz questa storica etichetta?

Una serie di musicisti pazzeschi. Lo stesso Keith Jarrett, molti europei come Jan Garbarek… Vede, se s’incide con ECM si arriva subito ovunque dal Brasile a Israele… E negli Usa entri con Polydor o Warner, non d’importazione: questo aiuta moltissimo.

Inciderà anche altri dischi per il famoso 80°?

No: l’unico è Roma. La “Rava Special Edition”, con anche Petrella al trombone (che non sarà a Gradara, nda), l’ha registrata sempre Eicher per ECM alla Fenice in luglio, ma vorrei portarla pure in studio. E vorrei fare un cd col chitarrista Roberto Taufic.

Osiamo dei bilanci: qual è lo standard che più ama?

Sono affezionato a My funny Valentine: fu Miles a mostrarci quanto potesse svilupparsi, passando da bella canzone a qualcosa di più; quasi teatrale.

Chi le manca di più dei colleghi scomparsi nel tempo?

Mi manca l’umanità di Joe Henderson, che è nella mia trinità del sax tenore: era tanto geniale che mi accorgevo di come i suoi assoli fossero cattedrali soltanto riascoltando i nostri concerti sul walkman…

Fra i talenti che ha lanciato a chi è più legato?

Bollani è un valore assoluto, Petrella anche. Hanno tanta musica dentro. Ma io non sono un talent scout, badi: sento più vicini i giovani dei miei coetanei. Ora pure con l’elettronica di Matthew Herbert ho un progetto molto interessante, che vorrei fare disco.

Quali sono i compositori più interessanti per uno che oltre il jazz ha affrontato da Tenco all’opera?

Michael Jackson, Paoli. Ma non m’ero mai accorto di Freddie Mercury, l’ho scoperto col film: ha scritto cose davvero incredibili. E poi Jobim, un gigante.

E le voci? Negli anni chi l’ha colpita di più?

Blossom Dearie e Anita O’Day arrivavano vicine a Billie Holiday, più della Fitzgerald. Maestosa la Joni Mitchell di Both sides now, concept sull’amore oggi che rilegge alcuni standard con jazzisti: lei centra magnificamente il significato delle parole, col canto. Fra gli uomini il più grande per me resta Armstrong. Con Sinatra: pure Miles s’ispirò a “The Voice” per come esporre i temi. Indi Chet, cantante meraviglioso. Però non le ho fatto nomi di oggi…

Ne farebbe qualcuno o non le piace proprio nessuno?

Melody Gardot mi piace abbastanza. E Vasco Rossi: scrive canzoni fortissime, canta in modo originale con molta verità e mi fa scattare sull’attenti perché è politicamente scorretto. Non sopporto il cambiare nomi alle cose: somiglia al bruciare le biblioteche.

Ma Enrico Rava a chi deve, una vita da jazzista?

A tanti. Però il principale fu Gato Barbieri. Io non volevo essere musicista per finire nel pop o in balera, volevo essere jazzista; lui mi diede fiducia e mi spronò a studiare e osare. Così quando mi chiamò da Roma, lasciai l’azienda di trasporti di famiglia: mio padre mi tagliò i viveri, però iniziai davvero a vivere di jazz. Ma devo tantissimo anche a Steve Lacy che mi portò a New York: non è come ora, sa, non è che prima o poi ci sarei andato; certe cose nel ’67 erano lontanissime… Inoltre in Italia eravamo grigi in abiti d’ufficio; là vidi vestiti colorati, capelli lunghi… E gli afroamericani. Così malgrado fossero anni duri, erano tanto creativi che chiesi la green card per restare. Se Gato non m’avesse dato forza sarei ancora nel tunnel dell’azienda, se Lacy non m’avesse portato a New York mi sarei perso tutto: è grazie a loro che sono qui oggi da musicista jazz.

Enrico Rava sul palco al San Sebastian Jazz Festival / Epa/Javier Etxezarreta