Testimoni. Émilie Tillion, una luce nel lager di Ravensbrück
Émilie, a destra, e Germaine Tillion nella loro casa verso il 1940
Una parte di questa storia è stata già scritta. È quella che riguarda Germaine Tillion. Ma una parte non meno significativa è ancora da scrivere e aspetta soltanto che un giovane studioso ci metta mano: è quella di Émilie Cussac, madre di Germaine. Questa storia è iniziata quasi ottant’anni fa a Ravensbrück, il lager nazista situato a una novantina di chilometri da Berlino, che accoglieva quasi esclusivamente donne: molte erano detenute politiche segnate dal triangolo rosso cucito sulla divisa carceraria. La maggior parte di loro venne impiegata in fabbriche come la Siemens, industrie tessili, opere di sartoria e calzature. Se avevano bambini, vennero loro sottratti e poi uccisi. Le donne incinte furono costrette ad abortire e i neonati affogati. Altre donne erano sottoposte a esperimenti medici e chirurgici, con gravi menomazioni.
L'etnologa Germaine Tillion nel 1934 - .
Come molte altre storie di deportazione e sterminio, anche questa è parte di quella lenta assunzione del senso di colpa avvenuta tanto nei “volonterosi carnefici” (come Daniel Goldhagen nel 1996 ha definito quei tedeschi che furono funzionali alla macchina omicida nazista) quanto nelle vittime. «Quel mondo di orrore ci appariva anche come un mondo di incoerenza, più terrificante delle visioni di Dante e più assurdo del gioco dell’oca » scrisse Germaine Tillion ricordando Ravensbrück. Pochi in Italia conoscevano il suo nome fino a una dozzina d’anni fa, quando nel 2007, prima che morisse a 101 anni, uscì la raccolta di saggi Alla ricerca del vero e del giusto con una prefazione di Todorov che restituiva a Germaine il ruolo di testimone esemplare del totalitarismo e dei crimini perpetrati nel Secolo breve.
Nata nel 1907, dopo gli studi di archeologia e storia dell’arte cominciò a interessarsi di etnologia e svolse ricerche sul campo in Algeria. Tornata in Francia nel 1940 allo scoppio della guerra, si unì alla rete della resistenza del Musée de l’Homme, ma il 13 agosto 1942 venne presa dalla Gestapo, su indicazione di un sacerdote cattolico collaborazionista, l’abbè Robert Alesch (giustiziato nel 1949) e finì a Ravensbrück. Uscita viva da quell’inferno, Germaine fu la rappresentante dei deportati nel 1946 al processo di Amburgo contro i carnefici di Ravensbrück. Tornata in Algeria si schierò contro i crimini francesi e pubblicò un importante studio sulle gerarchie sociali algerine, anche questo edito in Italia: L’harem e la famiglia. Infine, per molti anni raccolse le testimonianze sui gulag e i crimini staliniani e sovietici. In lei il Novecento, come sostiene Todorov, ha una sorta di Pubblico Ministero.
Émilie Tillion in una foto giovanile verso il 1900 - .
Veniamo alla seconda protagonista di questa storia, quella ancora da scrivere: Émilie Tillion. Nata nel 1876 a Talizat nel dipartimento di Cantal, sposa Lucien Tillion, giudice di pace e uomo di grande cultura che morirà prematuramente nel 1925. Émilie mette al mondo due bambine, Germaine e Françoise, che poi crescerà da sola. Ma è anche scrittrice e storica dell’arte. Col marito, aveva realizzato vari volumi delle Guides Bleus, celebre collana di Hachette nata nell’Ottocento, i cui tomi sono analoghi alle guide di viaggio del Touring club. Émilie e il marito firmarono volumi sulla Bretagna e l’Olanda, sulle Fiandre, Strasburgo e dintorni, su Versailles, e dopo la morte di Lucien lei continuerà, in particolare con tre grandi tomi su Le Pays de France e altri tre su Les Pays d’Europe curati con Marcel Monmarché.
I volumi dell'opera “Les pays d'Europa” curati da Émilie Tillion quando lavorava per Hachette (anni 30) - .
Il Réseau du musée de l’Homme, guidato da Paul Rivet che dal 1934 presiedeva anche il Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti, fu una delle prime reti della resistenza. Con Germaine anche Émilie entrò a far parte del gruppo e svolse compiti pericolosi, come quella di postina dei messaggi cifrati e ospitando in casa aviatori inglesi e fuggitivi. Il suo nome in codice era: Agent P1. Se Germaine viene scoperta e arrestata, poco dopo anche Émilie subisce la stessa sorte. Viene portata al carcere della Santé, poi alla prigione di Fresnes – dove continua a scambiare messaggi (i fogli venivano cuciti dentro le fodere dei vestiti) – poi al Forte di Romainville, poco fuori Parigi, quindi a Compiègne finché non sarà deportata in Germania a Ravensbrück, dove ritroverà Germaine. Arrivata nel lager il 30 gennaio del 1944, Émilie verrà condotta alla camera a gas il 2 marzo 1945, ma lascerà nelle sue compagne di prigionia un’impronta indelebile.
Un biglietto diretto alla resistenza che Émilie spedì durante la prigionia a Fresnes - .
Paulette Don Zimmet-Gazel, una dottoressa dell’Alta Savoia, arrestata e deportata a Ravensbrück, nel 1949 la ricorda così: «Personalità belle e grandi si librarono sopra la massa dei deboli e dei mediocri e, con la loro radiosa bellezza spirituale, condizionarono la nostra vita nel campo. E a te che penso, Madame Émilie Tillion (zia Émilie), e rivedo il tuo bel viso con quel sorriso eterno, buono, malizioso e buono, che ci dice: “Potrebbe andare peggio”. Illuminavi già il campo di Compiègne. Durante una chiacchierata archeologica una domenica al campo di Ravensbrück ci hai detto: “Se tornerete, guardate con amore le volte delle nostre piccole chiese di Francia”».
Il suo ruolo di angelo custode del campo può averla condannata a morte. Émilie, infatti, per confortare le sue compagne, teneva brevi lezioni di storia dell’arte. E forse venne notata dai tedeschi. Un’altra detenuta, Louise Le Porz, anch’essa medico dell’ospedale di Bordeaux, scrive un biglietto a Germaine che l’aveva invitata all’inaugurazione il 2 marzo 1947 del monumento dedicato a Émilie a Saint-Maur-des-Fosses: «Cara Koury [era lo pseudonimo di Germaine nel campo] Émilie resta uno dei miei ricordi luminosi a Ravensbrück e sono felice di sapere che la sua memoria viene onorata». La dottoressa, però, secondo la ricostruzione di Sarah Helm nel libro Il cielo sopra l’inferno (Newton Compton), rilasciò dichiarazioni in cui sembrava accusare Germaine: «La gassazione di Émilie Tillion devastò le francesi e Germaine fu sommersa da manifestazioni di cordoglio, anche se alcune si chiesero, e si chiedono tuttora, perché non fosse rimasta con sua madre. “Penso che io avrei fatto in modo di andare con mia madre nella camera a gas, lei no?”, disse Loulou Le Porz, quando le chiesi cosa ricordasse di quel giorno. Altre biasimarono Karolina Lanckoronska per non aver salvato Émilie. La Lanckoronska era blokova del suo blocco e avrebbe potuto intervenire...».
Quando la Croce Rossa svedese negoziò la liberazione dei prigionieri da Ravensbrück, Germaine passò baracca per baracca, letto per letto, dominata da un’angoscia che la faceva interrogare sul lutto di tutte le famiglie coinvolte nella tragedia. Soltanto dopo i resoconti negli anni 50 di Olga Wormser-Migot, che cambiarono la “narrazione” sui crimini nazisti, anche Germaine – come scrisse Donald Reid nel 2007 – parlò apertamente della morte di sua madre e dell’effetto che ebbe su di lei. Ma la testimonianza di un’altra deportata, Jeannie Rousseau, conferma che niente e nessuno avrebbe potuto salvare Émilie: «Germaine era nel Revier [l’infermeria] e non poteva fare niente. Anise Girard era con Émilie e le disse: “Ascolti, non deve andare. Posso nasconderla”. Ma Madame Tillion rispose: “Ho sempre guardato in faccia la mia vita. Voglio guardare in faccia la mia morte”. E Anise ha portato a lungo il senso di colpa ». La quale Anise conferma che a suo parere la Lanckoronska – nobile polacca e resistente, che definiva le francesi “incivili” – avrebbe potuto salvare Émilie: «Era professoressa d’arte come Madame Tillion ed entrambe davano lezioni nel blocco. Erano in un gruppo di intellettuali, il milieu culturel. Ma la Lanckoronska trovava detestabili la maggior parte delle francesi del campo... non fece niente».
É. Sabeau-Jouannet, nipote di G. Tillion, davanti alla targa commemorativa di Émilie a Talizat nel 2015 - .
Nell’Archivio del dipartimento di Cantal sono presenti varie testimonianze su Émilie: «Nobile donna, simbolo di coraggio, serena nell’abnegazione, di una amabilità sempre sorridente, chi l’ha conosciuta non la dimenticherà mai» (Marie- Jean Stout), «Ho trascorso otto giorni con lei nella cella della Santé, abbiamo parlato di mille cose, letteratura, musica ecc. che ci portavano lontano, oltre i muri della prigione» (May Renault). Nel Dopoguerra Germaine fece di tutto per rendere onore a Émilie, la quale – come ricorda ancora Donald Reid – aveva suggerito prima di morire di creare un’associazione dei Deportati intuendo che dopo la guerra i sopravvissuti avrebbero avuto bisogno del sostegno di una comunità. Poco prima di morire Émilie disse a una compagna di sventura: «L’idea delle larghe compensazioni che la nostra vita presente ci offre mi ha d’altronde sempre sostenuta. Al di fuori delle grandi, imperiose ragioni che abbiamo di essere qui, sono convinta che vi troviamo uno straordinario allargamento del nostro orizzonte, in tutti gli ordini di idee, e possibilità insospettate».