Agorà

Filosofia. La verità di Emil Cioran nelle lettere di una vita

Simone Paliaga mercoledì 19 giugno 2024

Un giovane Emil Cioran

«La Sua lettera, ricevuta durante l’incubo in cui si vive qui, respira talmente del soffio dello Spirito che, per un momento, mi ha sottratto alla dolorosa attualità. Lei vive storicamente nell’eternità. Troppo vicino alla mischia, io non riesco a beneficiare di questo paradosso, senza il quale lo Spirito non ha realtà. Mi permetta di invidiarla con la più grande simpatia, mentre io resto inghiottito dagli Istanti», risponde Cioran al grande studioso dell’Islam sciita Henry Corbin in una missiva datata maggio 1940. Essa compare nel volume Manie épistolaire, appena pubblicato in Francia da Gallimard (pagine 308, euro 21,00), insieme ad altre centosessanta lettere dell’autore romeno, a coprire un periodo che va dal 1930 al 1991. Artefice della cernita della corrispondenza, tra l’ampia messe presente negli archivi personali di Cioran, è Nicolas Cavaillès, già curatore dei volumi con le sue opere presenti nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade. A fare da introduzione al libro figura il saggio di Cioran intitolato proprio “Manie épistolaire” e pubblicato inizialmente nel 1985 nella raccolta 2 plus 2 e poi ripreso, otto anni dopo, sulla prestigiosa “Nouvelle Revue Française”, e di cui si dispone di una traduzione italiana nel volumetto, oggi introvabile, Mon cher ami. Lettere a Mario Andrea Rigoni dato alle stampe nel 2007 da Il Notes Magico. Per la sua gran parte, la corrispondenza mandata in libreria da Gallimard è inedita in Francia e anche in Italia anche se il lettore nostrano, a differenza dei cugini d’Oltralpe, ha già avuto modo di saggiare la “mania epistolare” del pensatore romeno attingendo alle Lettere al culmine della disperazione, rivolte nella prima metà degli anni trenta del secolo scorso ai compatrioti Bucur Tincu, Petre Comarnescu, Nicolae Tatu, a Un’altra verità, che riunisce le missive a Linde Birk e Dieter Schlesak, a L’insonnia dello spirito, con gli scambi intercorsi con Petre Tutea, a Tra inquietudine e fede, l’epistolario con George Balan, e a L’orgoglio del fallimento, quello con Arsavir e Jeni Acterian, tutti questi pubblicati da Mimesis. Senza contare i carteggi completi con Mircea Eliade, Una segreta complicità (Adelphi), e con Wolfgang Kraus, L’agonia dell’Occidente (Bietti).

Le lettere radunate da Cavaillès non cessano di destare sorpresa, soprattutto per la rete fitta di contatti e relazioni coltivati nel corso del tempo, in Europa e non solo. Esse permettono di cogliere come il Cioran scrittore corrispondesse al Cioran uomo, malgrado quanto scrivesse lui stesso nel saggio del 1985 che funge da ouverture alla raccolta. In esso puntualizza che «la lettera, una conversazione con una persona assente, rappresenta un evento maggiore della solitudine. Cercate la verità su un autore più nella sua corrispondenza che nella sua opera. Il più delle volte l’opera è una maschera». Eppure “il più delle volte” non vale per Cioran. In Manie épistolaire scorre quello che lui pensa e sente, come se ogni suo libro non fosse altro che una lettera scritta a se stesso. Cioran, nato l’8 aprile 1911 a Rasinari, vicino a Sibiu, nella Transilvania rumena e spentosi il 20 giugno 1995 a Parigi, dove trascorre gran parte della sua vita, è stato un saggio che disprezzava la saggezza, un mistico che si aggirava intorno a un Dio che non trovava, uno scettico che derideva l’essere e il nulla. E tutto questo fa capolino anche nella corrispondenza, la cui prodigalità è difficile da condensare in poche parole. A testimoniarla più delle lettere indirizzate a Aurel, il fratello minore seminarista, agli altri familiari e a “La Tzigane”, Friedgard Thoma, la sua ultima storia d’amore, sono quelle inviate agli altri corrispondenti presenti nel florilegio. In particolare, per citare i più conosciuti, a Carl Schmitt, Ernst Jünger, Edmond Jabès, Henry Corbin, Jean Paulhan, François Mauriac, María Zambrano, Samuel Beckett, Henry Miller, Fernando Savater, Costantin Noica, la moglie di Benjamin Fondane e Clément Rosset.

Lucide, ironiche ed esistenziali, composte tra i diciannove e i settantanove anni, accompagnano il cammino di pensiero dell’autore di Sulle cime della disperazione e rivelano il genio di Cioran per un’arte epistolare che egli poneva al di sopra di tutto. Rivelano una Stimmung coltivata lungo tutto il corso della vita, dimostrando, ancora una volta, la sua leggendaria lucidità sul mondo e se stesso. Alla nipote di Leon Šestov, Alice Laurent, nella primavera del 1989, confessa che il prozio gli «ha reso un servizio considerevole: mi ha liberato dall’idolatria della filosofia». Un tema, quello del rifiuto della filosofia, che ritorna nella lettera scritta a Zambrano, nel 1970, quando le confida: «Comprendo perfettamente che abbia tentato di scrivere una pièce, di superare la filosofia, insomma: si è più se stessi nel pensiero incarnato, diretto, che in un saggio o in un sistema. L’accento di “Sueño de la hermana” come renderlo con dei concetti? Non c’è maledizione in filosofia, non c’è sangre. Lei sottolinea giustamente che Giobbe non è un filosofo. Se lo fosse stato Dio non gli avrebbe risposto (né l’avrebbe mai punito)». E continua confessandole la sua ammirazione perché «ciò che amo specialmente di lei, è che ha pensato e meditato a lungo sull’idea di avvenire, sulla sola cosa che l’uomo non avrà». L’inanità della filosofia si rinviene anche in altre lettere. Come in quella inviata al poeta e pensatore Edmond Jabès del 1983. «Si sente – scrive Cioran – che le sue riflessioni, i suoi versi o le sue formule sono l’esito di un processo, e questo processo si prova a immaginarlo senza che si possa conoscerlo. Questa impossibilità non nuoce alla lettura: la eccita, al contrario. Ed è così che si è riconoscenti all’autore di custodire per sé il segreto del suo faccia a faccia con le presenze ultime».

È difficile non provare simpatia, nel senso etimologico della parola, per questo maestro del disincanto e della disperazione, che a Ernst Jünger, che gli chiede un contributo per una raccolta di massime, risponde nel luglio del 1960, in sintonia col suo rifiuto della filosofia. «La mia situazione – scrive Cioran – è delle più paradossali o piuttosto delle più false: non ho più il desiderio di essere conosciuto, l’idea stessa di notorietà mi sconforta, eppure mi trovo costretto, per un incatenarsi fatale di eventi o per inerzia, a subire le conseguenze dell’incompatibilità con le mie convinzioni».