Agorà

INTERVISTA A PADRE CASTELLI. Elsa, Natalia e il tormento di Dio

Laura Badaracchi mercoledì 22 settembre 2010
Quando si leggono i suoi saggi – dalla trilogia Volti di Cristo nella letteratura moderna ai volumi Nel grembo dell’ignoto e Se ci fosse un Dio – sembra che uno dei compiti della letteratura sia quello di rivelare l’anima degli scrittori. Impressione confermata da Dio come tormento. Da Dante a Julien Green, scrittori di fronte al Mistero (224 pagine, 16 euro), da oggi in libreria per i tipi di Àncora, del gesuita padre Ferdinando Castelli, critico letterario e redattore della rivista "La Civiltà Cattolica". Di Natalia Ginzburg, scrive che invita «ad alimentare in noi la nostalgia di Dio», ritenuto dalla scrittrice non credente un problema «vitale ed essenziale». Un rapporto filiale trasfigurato da Ada Negri e interpretato come prossimità da Ignazio Silone: vari suoi personaggi «sono convinti che Dio è sulle loro strade per confortarli e partecipare alle loro sofferenze». Un Dio vicino, insomma, presente per Elsa Morante nell’intimo della coscienza e della natura, mentre per Dino Buzzati resta un mistero di cui «conosciamo le orme».Cos’è per lei la letteratura?«A mio avviso non è principalmente forma, cioè stile brillante, bellezza di rappresentazione, ricchezza linguistica, ma soprattutto la capacità di penetrare il mistero dell’anima umana, ghermirne i fremiti e i segreti, ricorrendo anche al sentimento e all’immaginazione. Quando analizzo l’opera di uno scrittore, mi imbatto nel mistero dell’uomo, arrivando alla conclusione che è fatto per l’Assoluto; quando elimina questo fondamentale riferimento diventa un alienato, inquieto e nostalgico. La critica letteraria approda – ma non lo è –- all’apologetica».Quanto afferma giustifica il titolo e il significato del suo nuovo volume...«Esattamente. Ogni autentico scrittore (o artista) non può non avvertire il fremito dell’Assoluto, dunque il tormento di Dio. Il titolo mi è stato suggerito da Dostoevskij: credeva in Dio, ma avvertiva anche l’incalzare dei dubbi e la tentazione della negazione. Tormento che sperimenta ogni anima peregrinante verso il monte Sion».Tormento per il dubitare dell’esistenza di Dio?«Sì, ma non soltanto. Pensi a Leopardi: avverte – e in modo violento – il richiamo all’amore, alla felicità e alla pace. Cioè a Dio. Se c’è Dio, chi è? Non lo sa. Sa però che l’angoscia dell’uomo-pellegrino sulla terra è segno e testimonianza di un Dio misterioso, nascosto, inaccessibile. Sa anche che l’uomo, per essere se stesso, deve trascendersi e approdare all’Assoluto».Dunque, il tormento degli scrittori è motivato dall’oscurità che avvolge Dio? Su questo abbondano le citazioni...«Credo sia essenziale far parlare gli autori. Ad esempio, nel leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia si legge: "... ma, s’io giaccio in riposo, il tedio assale". Il tedio è un aspetto del tormento di Dio».Tormento che in Charles Baudelaire diventa implorazione di pietà, come lei chiarisce nel capitolo «Dio invocato dall’abisso».«L’esperienza religiosa di questo grande poeta è singolare. Aggirandosi sui costoni del suo inferno, ha avvertito – tra sbuffi di bestemmie e fumi di decomposizione – il bisogno di rivolgersi a un Dio sfuggente e oscuro, perché abbia pietà della nostra misera condizione».Un ulteriore esempio?«Un altro scrittore che ha sentito in maniera lancinante il tormento di Dio è lo svedese Pär Lagerkvist, scomparso nel 1974. Per lui Dio ci sfugge da ogni parte, ci sorride, ci colpisce e si nasconde, ci chiama e ci respinge. Ma non possiamo fare a meno di lui, come non possiamo fare a meno dell’aria. In un certo senso, siamo condannati a Dio, del quale non possiamo né sentire la voce né vedere il volto. Possiamo però avvertirne la presenza nel profondo dell’anima che, da sempre, lo invoca "dal fondo delle tenebre"».Apre il volume con Dante, che esprime una fede vibrante e tersa, un abbandono alla volontà divina contemplato dalla trasfigurazione lirica. In che senso il poeta toscano ha avvertito il tormento di Dio?«Dinanzi al mistero trinitario, la mente sperimenta la sua limitatezza. Si tormenta perché vorrebbe carpirne la profondità, la bellezza, la luminosità, ma inutilmente: una mancanza che genera il tormento. Lo hanno avvertito anche Raïssa Maritain, Gertrud von Le Fort, David Maria Turoldo...».Nei ventidue capitoli Dio è presentato nei suoi diversi volti: liberatore dal male o giudice, illusione o silenzio, padre e amore, voce interiore e bisogno. In che senso è sempre tormento? «Nel Deuteronomio si legge: "Il Signore, tuo Dio, è un fuoco divoratore". Accostarlo significa avvertirne l’ineffabilità, la santità, la bellezza e l’amore. È come una luce che accieca, una passione che travolge. Come non avvertire il tormento della sua trascendenza e della nostra limitatezza e povertà?».Quale criterio ha usato nella scelta degli autori?«Ho privilegiato quelli generalmente noti e paradigmatici, nei cui testi sia facile riconoscere la voce di molti altri poeti e narratori. Una panoramica di risonanze ora convulse e amare, ora roche e intrise di pianto, ora pacate e gioiose, dal timbro che sa di terra e di cielo. In tutte c’è l’eco dell’homo viator alla ricerca di Dio, tra ombre e schiarite».Secondo lei, c’è nella letteratura contemporanea una sorta di minimalismo esasperato, privo di una chiave di senso profonda?«Questo pericolo c’è: si tratta di scrittori che obbediscono alle leggi di mercato e alla moda. Però abbiamo anche oggi autori di tutto rispetto, come Eric-Emmanuel Schmitt. Le mode passano, il mercato si esaurisce, gli interrogativi di fondo restano».