Seguendo le orme di Henry James (New York, 1843 Londra 1916), e in sintonia con Ezra Pound (Hailey, 1885 - Venezia, 1972), Eliot è il primo dei poeti americani a scegliere l’Europa; nato a Saint Louis nel 1888, si trasferì in Inghilterra nel 1914, divenendo poi cittadino britannico (e a Londra morirà nel gennaio 1965). È un congedo dal Nuovo Continente che indica quanto contasse ancora, ad inizio secolo XX, la civiltà europea, come il poeta evoca in una sua
Ode giovanile: «Con tutto ciò che di Harvard ci portiamo via / in luogo della vita che lasciamo». In effetti i modelli poetici sono Laforgue e Baudelaire, su cui egli innesta – dedicando due impegnati saggi – la filosofia di Bradley (1916) e la “metrica” di Pound (1917). Non si può intendere la poesia di Eliot, senza quell’appello metafisico che discende dagli
Essays on Truth and Reality (1914) di Bradley: «Io accetto la definizione di Bradley di giudizio come predicazione di un’idea di realtà, e convengo che quest’idea rappresenta una totalità» (
Conoscenza ed esperienza nella filosofia di F. H. Bradley, cap. II). E così andrà inteso il primo saggio su
Dante del 1920, poeta-filosofo, chiamato a esprimere, in ogni dettaglio, la totalità che tutto assorbe e giustifica: «È uno dei massimi meriti del poema dantesco che la visione sia quasi totale, e una prova di questa grandezza sta in questo fatto: che il significato di qualsiasi singolo avvenimento, di uno qualsiasi dei passi che di solito vengono indicato come “poetici”, è incompleto se non conosciamo il tutto». Posizione più antitetica all’idea crociana di “frammento lirico”, in cui si riassumono i passi salienti della
Commedia, non poteva darsi: ed essa va richiamata anche per comprendere quel poema, ricapitolativo della memoria d’Occidente, che è
The Waste Land, 1922. Mario Praz, traducendolo quasi subito (1932), impose il titolo – ancora corrente – di
La terra desolata (seguendo le tracce del saggio di Jessie L. Weston suggerite dallo stesso Eliot); in realtà, come videro più tardi André Pézard e Giorgio Caproni, si tratta di citazione diretta del 'paese guasto' [fr.:
terre gaste] del Veglio di Creta (
Inf., XIV, 94) che “si diroccia” fino a Cocito, stagno dell’ultima abiezione umana.
Waste Land è questo, ultima liturgia di pietà sulle immense rovine della storia: «Ora vengono le vergini portatrici di urne, urne che contengono / Polvere / Polvere / Polvere di polvere…» (
Marcia trionfale). È una trenodia memoriale della sapienza biblica (
Ezechiele, E cclesiaste), classica (
Pervigilium Veneris, Agostino), medievale (Dante costantemente, ma anche il
Tristano e Isotta) e moderna: da Shakespeare a Baudelaire, a Nerval, a Hermann Hesse: «Torri crollanti / Gerusalemme Atene Alessandria / Vienna Londra / Irreale» (
Ciò che disse il tuono). In tale desolazione tuttavia – ed è questa la ragione per cui qui sono scelti i “ricapitolatori” aperti al Dopo, anziché i “saturatori” certi e sazi del “Tutto” – c’è sempre un
Sermone del fuoco capace di accendere, dalle braci di una civiltà, nuovi guizzi di speranza: «Ardere ardere ardere ardere / Signore Tu mi cogli, / Signore Tu mi cogli / In ardore». Questo passo precede – e va letto sempre come “introibo” – la conclusione di
Ciò che disse il tuono, che ogni giovane europeo, affacciandosi al XXI secolo, dovrebbe leggere come lascito, come pegno, come cammino: «Riuscirò alla fine a mettere in sesto le mie terre? /
London Bridge is falling down falling down falling down /
Poi s’ascose nel fuoco che gli affina / Quando fiam uti chelidon – O rondine rondine /
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie / Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine». Frammenti di una risurrezione per spoliazione: così si annuncia – nelle parole di Giovanni della Croce – il penultimo movimento di
Waste Land, Frammento di un agone: «Onde l’anima non può essere posseduta dall’unione divina, finché non si sia spogliata delle cose create». Parimenti, biblico e pascaliano, è il Nascosto che chiude la Marcia trionfale: «Oh, celato sotto l’ala della colomba, celato nel petto della tortora, / Sotto il palmizio del meriggio, sotto l’acqua corrente / Al punto morto del mondo che si volge. Oh, celato!»,
O hidden!: è questo il lascito, e la linfa, che animerà ancora i
Quattro quartetti (1936-1942), poemetto che racchiude il senso stesso del XX secolo, tra abbagli e speranza: «Nel mezzo, non solo nel mezzo del cammino / Ma per tutto il cammino, in una selva oscura, tra i rovi, / Sull’orlo di un pantano, dove il piede non è sicuro, / E tra minacce di mostri, luci fantastiche, / Col rischio dell’incantesimo. […]» (
East Coker, II). Non è solo l’incipit della
Commedia che qui si rinnova, ma ogni mito di conoscenza, da Omero in poi, che ha animato e spinto l’uomo occidentale a conoscere il limite per varcarlo, foss’anche – l’oltre – vuota desolazione: «Gli uomini di età hanno da essere esploratori / Il luogo e l’ora non importano / Noi dobbiamo muovere senza fine / Verso un’altra intensità / Per un’unione più completa, comunione più profonda / Attraverso il buio, il freddo e la vuota desolazione » (
East Coker, V). In my end is my beginning: non più solo la fine (di ogni 'crepuscolo' dell’Occidente), ma l’incessante inizio: «l’innegabile / clamore di campana dell’ultima annunciazione » (
I dry salvages, II), perché sempre, in ogni istante e in ogni rovina, «There is no end, but addition»,
non c’è fine, ma accrescimento, «in un annientamento di tutta la vita nell’amore, / Nell’ardore, altruismo e dedizione» (
I dry salvages, V). Tale è stata, è, l’ “Incarnazione”, quella celebrata da Dante: «Ripeti una preghiera anche per / le donne che han visto i loro mariti e figli / partire e non tornare: /
Figlia del tuo Figlio, / Regina del cielo» (
I dry salvages, IV), e quella di ogni giorno: «Siete qui per inginocchiarvi / Dove la preghiera è stata valida» (
Little Gidding, I), in un dialogo senza certa risposta con l’“Intimo e pur non identificabile” (
Little Gidding, II), poiché «Amore è il nome meno familiare» (
ivi, IV), ma è il nostro solo modo di aderire al Vivente: «E noi viviamo, noi respiriamo / Soltanto se bruciamo e bruciamo».