Idee. Elias Canetti e la morte: tra maledizione e la tentazione della speranza
Lo scrittore Elias Canetti
Forse la sua opera più attuale è La commedia della vanità, un dramma in cui Elias Canetti immagina un futuro in cui uno Stato totalitario proibisce l’uso degli specchi per combattere il narcisismo. Non solo: è vietato anche scattare e conservare fotografie. Inutile dire che il gusto del proibito ha il sopravvento e il commercio clandestino degli specchi prolifera: quella contro la vanità è una battaglia persa. «Gran parte del nostro tempo lo passiamo a contemplare noi stessi», scrive il grande autore mitteleuropeo nel 1934 ed è una constatazione che oggi è divenuta legge nell’era dei selfie.
Un altro dramma del romanziere e saggista di origine bulgara e lingua tedesca, premio Nobel della letteratura nel 1981, si intitola Vite a scadenza e ipotizza che a ogni bambino venga consegnata una capsula in cui è scritto il giorno della nascita, ma anche quello della morte. Cosa succede a un uomo se conosce quando scoccherà la sua ora? Il signor Cinquanta (così chiamato perché è a 50 anni che morirà) si ribella e scopre che le capsule sono vuote: la sua diventa una denuncia alla supina accettazione della morte. Ed è esattamente quanto ha voluto fare con tutta la sua esistenza e la sua opera Elias Canetti, come conferma Il libro contro la morte uscito postumo nel 2014 e appena tradotto in italiano da Adelphi (pagine 394, euro 18).
Curato da Johanna, l’unica sua figlia, il volume raccoglie centinaia di appunti, perlopiù inediti, dedicati a una questione che l’ha interpellato continuamente. «Io non accetto la morte, e questo è tutto», annota nel 1951. E ancora: «Non morire. Primo comandamento» oppure: «Tutto comincia con la conta dei morti», aforisma quest’ultimo che viene posto all’inizio del libro proprio per contestare la contabilità delle guerre e delle violenze. In questo senso «un morto e un altro morto non sono due morti». Come Camus non accetta il concetto di assurdo, Canetti lancia una vera e propria maledizione verso la morte. Senza riuscire a esorcizzarla.
Quella di Canetti è in fin dei conti un’antiteologia e il suo bersaglio diventa in primo luogo Dio. Ebreo di origine sefardita, nato a Ruse in Bulgaria nel 1905 e morto a Zurigo nel 1994 dopo aver vissuto prima in Germania e Austria, poi emigrato in Inghilterra per sfuggire al nazismo, fu definito da Italo Alighiero Chiusano «un Socrate del mondo di oggi» per il suo spirito ironico, ma anche per essere stato coscienza critica dell’Europa. In realtà tutte le sue opere, il romanzo Autodafè in primo luogo, sono la presa d’atto della desolazione in cui vive l’uomo, senza possibilità di salvezza e redenzione. Dio è assente e anzi va processato: «Adamo strangola Dio, Eva sta a guardare », scrive a proposito del paradiso terrestre. E sulla fine del mondo: «D’improvviso i risorti, in tutte le lingue, accusano Dio: il vero Giudizio universale». Dio ha creato la morte e per Canetti non può essere perdonato.
Ma se questa prospettiva di fondo pervade Il libro contro la morte, è possibile talora leggere passi in cui si intravvede un baluginio, una forma di speranza. Come quando Canetti parla di Sophie Scholl, la giovane protagonista della Rosa Bianca (capace di opporsi a Hitler), alla quale riconosce «l’estremo sacrificio, l’unica morte ammissibile». O come quando vede nell’amore una possibile resistenza a un destino ineluttabile e cita Gabriel Marcel: «Amare qualcuno significa dirgli: non morirai. Non posso amare senza volere l’immortalità di colui che amo». O quando rivela di aver appeso una copia della Crocifissione di Grünewald nella sua camera, «perché il mio dolore non ha ancora trovato la propria voce, così tocca a lui esprimere il mio dolore». Aggiungendo in un altro passaggio: «Il buddhismo non mi soddisfa perché rinuncia a troppo. Non dà una risposta alla morte, la aggira. Il cristianesimo ha comunque posto al centro il fatto del morire: che altro è la croce?».
A questo proposito, dispiace che qui invece non figurino due brani su Pascal e sulla Bibbia, tratti da La tortura delle mosche, uno dei suoi ultimi libri di appunti (scritto nel 1991 e che Il libro contro la morte spesso riprende): «Di nuovo Pascal. Il quale non ci ha mai irritato, mai deluso. Se anche non fossimo d’accordo con una sola delle sue parole, non vorremmo mai smettere di contemplarle e meditarle. Non c’è scoperta che possa intralciarlo. Sentiamo che in lui fede e pensiero sono sullo stesso piano». In un altro passo confessa di essersi «consegnato alla Bibbia», a cui, a lungo, aveva opposto «un’accanita resistenza». Così spiega: «Voglio conoscerla a fondo e sostenerla contro i tanti miti di popoli diversi che mi hanno nutrito. Voglio lasciare che la sua sapienza agisca sulla mia persona non come qualcosa che è comunque già insito in me, Voglio esporre la Bibbia e con ciò stesso viverla».
Come ha commentato padre Ferdinando Castelli, si può forse credere che «il vecchio Pascal abbia fatto di uno scettico, imbevuto di cultura razionalistica, un cercatore di ancoraggi sicuri?». Impossibile saperlo. Eppure sempre Canetti aggiunge, citando ancora l’autore dei Pensieri: «Io non posso approvare se non coloro che cercano gemendo».