Agorà

Editoriale. Atlantide, società perfetta nell'isola che non c'è

Franco Cardini lunedì 24 agosto 2009
La radice di tutto quel che vorremmo sapere è forse lontana, remota: e risale ai fenici e alla loro organizzazione di empori mediterranei all’inizio del I millennio a.C. Ma in realtà bisogna risalire forse agli ultimi secoli del III millennio a.C., quando appunto con l’incipiente «età del bronzo» la preistoria comincia a orientarsi verso il momento in cui si comincerà a sistematizzare la memoria: cioè a «fare storia». Prodigiosa lega metallica, il bronzo: splendente, duttile, malleabile, resistente. Con un solo difetto, quasi uno scherzo della natura: uno dei metalli che la compongono, il caldo e morbido rame, abbonda nell’area sud-est del bacino mediterraneo, tra deserto arabico e isola di Cipro; mentre l’altro, il gelido e duro stagno, bisogna andarlo a cercare a nord-ovest, tra penisola iberica e coste della Cornovaglia. Preistoria, appunto. Non sapremo mai nulla sull’angoscia, la fatica, la paura di antichi marinai provenienti magari dal dolce Mediterraneo e fiondati nel gelido mare dalle alte onde color ferro, tra giorni tempestosi e notti senza luna e senza stelle. Ma le storie sull’infinito mare che si stendeva al di là delle Colonne d’Ercole e sui suoi pericoli dovevano già girare da secoli quando quei gruppi, forse quelle generazioni di cantori che noi chiamiamo collettivamente «Omero», cominciarono a parlarne. E non è mancato chi ha riconosciuto il Mare del nord e il Baltico nelle acque e nelle isole descritte dall’Odissea. L’Ovest affascina, incanta e impaurisce le genti del Mediterraneo, dall’antico Egitto in poi: luogo dove il sole va a dormire, Terre dei Morti, Isole dei Beati. L’Oceano Atlantico deriva il suo nome dal titano Atlante, figlio di Giapeto e di Climene, condannato per la sua rivolta contro gli dèi olimpici a reggere la volta celeste e residente nell’estremo Occidente, là dove Mediterraneo e Oceano s’incontrano. Ma Platone, riprendendone il mito in due dialoghi, «Crizia» e «Timeo», ne fa un semidio signore di una potenza navale estesa su parte dell’Europa occidentale e dell’Africa 10 mila anni prima di Cristo. L’impero insulare di Atlantide scomparve nel giro di un solo giorno, in un immenso cataclisma. Si è da allora molto discusso sull’origine e le vicende di questo mito, che Platone illustra ad ammonire la sete di gloria, di conquista, di lusso. In sé, il mito di Atlantide sembra rinviare a episodi biblici come la Torre di Babele e il Diluvio universale. Si è pensato a una versione in carattere mitologico delle antiche memorie, magari oralmente tramandatasi, dell’isola vulcanica di Santorino nelle Cicladi, l’antica Thera. La sua esplosione verso la metà del II millennio a.C. avrebbe provocato un’ondata alta circa 200 metri, abbattutasi su Creta ponendo fine alla raffinata civiltà minoica. Dimenticata nel Medioevo, la tragedia di Atlantide tornò a ispirare l’età moderna, ritessuta da Tommaso Moro nell’«Utopia» e da Francis Bacon nella «Nova Atlantis». Le isole incantate di cui tanti «conquistadores» sognavano d’insignorirsi avevano quest’origine: anche Sancho Panza s’immaginava il dono d’un’isola quale ricco salario del lungo servizio reso al signor Don Chisciotte. Stando al «Timeo» di Platone, i sacerdoti egizi sarebbero stati i depositari e i primitivi rivelatori di quella storia avvenuta in tempi senza storia; nel «Crizia» egli entrò in dettagli, descrivendo la situazione geografica di Atlantide e i suoi ricchi templi. Egli, tuttavia, la sottraeva allo spazio controllabile da occhi ellenici e la trasferiva direttamente nell’Atlantico: forse a sottolinearne in realtà, attraverso un’estrema lontananza, la sostanziale condizione d’inesistenza. Prima della paradisiaca «Isola Non Trovata» della geografia rinascimentale e dell’«Isola-che­non- c’è» di Peter Pan, Atlantide è un modello tanto perfetto quanto inattingibile. L’aveva compreso Aristotele, per il quale essa era frutto della fantasia del suo maestro. Un parere di buon senso, a lungo seguìto prima che la fantasia di occultisti e dilettanti otto-novecenteschi cercasse di tradurre in prove il frutto di insensate elucubrazioni.