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TENDENZE. Economisti, la bussola perduta

Marco Girardo martedì 7 dicembre 2010
Ricerche sul rapporto fra sex appeal e reddito, per quantificare quanto vale il fascino. La felicità che diventa un "bene monetizzabile" come l’invalidità civile. Alla Columbia University e a Standford, nel frattempo, i corsi di "capitalismo Zen" registrano da due anni il tutto esaurito. L’economia è impazzita? O lo sono gli economisti, sotto tiro da mesi e da più fronti per non aver previsto la più acuta crisi globale del secondo dopoguerra? Non sono più domande peregrine. Anche perché rimbalzano sui giornali - quest’estate il Financial Times ha ospitato un duro confronto fra lo storico Niall Ferguson e il Nobel Paul Krugman - e occupano come non accadeva da tempo la scena accademica, dove non a caso si rispolverano gli scritti del più celebre studioso della Grande Depressione: John Mynard Keynes. Richard Posner, colonna portante della celebre Universiy of Chicago, è arrivato persino a decretare la fine del liberismo e il tramonto di quella Scuola di Chicago che da Friedrich Hayek a Myron Scholes - passando per Milton Friedman e Gary Backer - ha fatto incetta di Nobel per trent’anni: ben dodici da quando, nel 1968, la Banca centrale svedese ha creato il premio.Che qualcosa stesse davvero cambiando nella ricerca economica lo si poteva intuire già prima che l’ultimo choc finanziario mettesse sul banco degli imputati l’economia di Wall Street. Guardando per esempio ai Nobel assegnati negli ultimissimi anni. Se, infatti, fino al 2000, sono stati proprio i Chicago Boys a occupare la scena con il loro "assioma" della razionalità dei mercati mentre la finanza dominava il parterre, di recente qualcosa è cambiato. L’ultimo premio è andato agli statunitensi Peter Diamond e Dale Mortensen e al britannico di origine cipriota Christopher Pissarides per il loro metodo d’analisi utile a comprendere come le politiche economiche influenzino l’occupazione o la disoccupazione. Nel 2009 a vincere fu Elinor Ostrom (insieme a Oliver Williamson) per aver dimostrato come le comproprietà (acqua, foreste, pesci o idrocarburi) possono essere gestite in maniera efficace dalle associazioni di utenti. L’anno precedente toccò a Krugman, economista keynesiano sostenitore della sanità pubblica negli Usa. Edmund S. Phelps lo guadagnò invece nel 2006 per i suoi studi sulla dinamica dell’inflazione e della disoccupazione. Studi sul lavoro, il bene comune. Molta "economia quotidiana" e pochi derivati. "Nobel sociali", si potrebbe quasi definirli. Una prima virata dall’autostrada finanziaria ai viottoli della microeconomia si era avuta nel 2002 con il Nobel a Daniel Kahneman, psicologo israeliano, vincitore insieme a Vernon Smith per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza. Gli studi di Kahneman rappresentano solo la punta di un iceberg ingigantitosi a partire dalla fine degli anni Novanta nel campo della teoria economica e non solo: l’iceberg della contaminazione. Una tendenza sotterranea tipica delle fasi che di solito precedono un cambio di paradigma. Ecco perché quanto sta accadendo alla ricerca economica non sembra essere una moda passeggera: a scricchiolare è il pavimento epistemologico. Con una conseguenza interessante: l’economia ha quanto meno iniziato a battere sentieri inesplorati. In alcuni casi addirittura bizzarri. Ci sono anche tre italiani, ad esempio, fra i premiati dell’Ig Nobel 2010, il riconoscimento alla scienza "che fa prima ridere e poi pensare", organizzato ogni anno dalla rivista scientifica-umoristica Annals of Improbable research, sponsorizzata dall’Università di Harvard. Alessandro Pluchino, Andrea Rapisarda e Cesare Garofalo hanno dimostrato matematicamente, con buona pace dell’ufficio Risorse umane, che un’organizzazione diventa più efficiente se promuove le persone a caso. I ricercatori della New economics foundation (Nef) - divenuta famosa per essere riuscita a inserire nell’agenda del G8 il tema del debito internazionale ben prima che scoppiasse la crisi - ha messo invece a confronto il valore economico di sei diversi mestieri, tre pagati molto bene e tre con una busta paga magra. Ebbene: un’ora di lavoro di un addetto alle pulizie in ospedale crea dieci sterline di profitto per ogni sterlina di salario. Al contrario, per ogni sterlina guadagnata da un manager bancario ce ne sono sette perdute dalla comunità. I banchieri, in altre parole, stando ai calcoli del Nef, danneggiano l’economia globale. L’elenco degli studi economici "alternativi" potrebbe continuare con Nick Powdthavee, economista comportamentale inglese, che ha quantificato il valore della felicità. La buona salute? Vale 1 milione e mezzo. Avere tanti amici 274mila euro, un matrimonio felice 238mila e la pensione 136mila. Ognuno faccia quindi bene i suoi conti se riceve un’offerta di lavoro allettante che rischia però di compromettere l’equilibrio famigliare. L’abbandono dell’ortodossia coinvolge naturalmente anche l’accademia. Lord Robert Skidelsky, biografo fra i più autorevoli di Keynes, sta lavorando a un saggio intitolato: Quanto basta: l’economia della vita buona. E Simon Anholt, premiato lo scorso anno a Trieste nel corso dei Nobels Colloquia con il Prize for leadership on Business and Economic Thinking, ha inventato il Nation Brand Index, un rapporto che valuta il fascino, la credibilità e il potere delle identità nazionali nella percezione del resto del mondo (e in cui l’Italia non sfigura). Dal sorriso di un manager al carisma di uno Stato, dunque, la ricerca ha iniziato a perlustrare piste inedite. E agli ingegneri della finanza si affiancano ora gli alchimisti dell’economia.