Agorà

Spiritualità. Eckhart, Plotino e la via mistica del distacco dal nostro ego

Marco Vannini venerdì 13 settembre 2024

Anthony van Dyck, “Studio di testa di una giovane”, 1618-20

Il filosofo e teologo Marco Vannini anticipa la sua lezione magistrale dal titolo “Distacco. Mistica come conoscenza dell’anima”, che si terrà questa sera alle 20.30 al teatro Carani di Sassuolo. L’intervento rientra nell’ambito del Festivalfilosofia, organizzato nelle città di Modena, Carpi e Sassuolo da oggi a domenica 15 settembre. L’edizione di quest’anno, la 24ª, è dedicata al tema della psiche. In particolare, la lezione magistrale di Vannini trae ispirazione dal suo ultimo libro, Conosci te stesso e conoscerai te stesso e Dio (Le Lettere, pagine 156, euro 17,00).

«Quando predico, sono solito parlare del distacco, e di come l’uomo debba essere libero da sé stesso e da tutte le cose...». Così, all’inizio di un sermone, Eckhart esprime l’essenza del suo insegnamento, che, come ripete sempre, consiste di una cosa soltanto: vegliare su sé stessi e rinunciare a sé stessi. Il domenicano tedesco non presenta affatto una dottrina nuova, ma ripropone nella sua radicalità il messaggio evangelico, secondo le parole di Gesù: «Chi vuole essere mio discepolo, deve rinunciare a sé stesso». L’amor sui, amore di sé stesso, amor privati boni, amore del bene personale, è infatti la «radice di ogni male e peccato» – il peccato per così dire originale, quello stesso per cui peccò Adamo – ma è anche ciò che impedisce di conoscere ed essere davvero sé stessi. Il legame all’ego – e, di conseguenza, quello alle cose – spiega Eckhart, è come la terra che ricopre una pura sorgente: essa sempre zampilla, ma non appare alla luce, e dunque in certo senso non c’è, se non si toglie la terra che la ricopre. Il distacco è appunto questa opera di scavo, di rimozione dell’inessenziale, alla ricerca di quella sorgente che sta nel profondo, in quel «fondo dell’anima» in cui è molto difficile gettare lo sguardo, perché lì l’anima non è più anima, ma qualcos’altro, – «un altro genere di anima», diceva già Aristotele dell’intelligenza pura, che prende il nome di spirito. «Per chi ha gettato anche un solo istante uno sguardo in questo fondo, per costui mille marchi d’oro sono come un soldo falso », ovvero gioisce di una beatitudine incomparabile, perché «qui io vivo secondo il mio essere proprio, così come Dio vive secondo il suo essere proprio». La scoperta del fondo dell’anima è infatti la scoperta della realtà vera dell’essere umano, che è spirito, così come Dio è spirito. Il distacco è dunque un’operazione morale: lasciare ciò che è relativo, temporale, muovendo verso l’unum necessarium e scoprendo così quello che già Platone chiamava “uomo interiore”, che vive nella dimensione dell’Uno, dell’eterno, dello spirito, a differenza dell’uomo esteriore, che sta in quella del molteplice, del tempo, dello psichismo. È però anche un’operazione intellettuale, perché è l’intelligenza che comprende la finitezza, la non assolutezza, dei propri contenuti: è l’intelligenza che distacca. Eckhart conosceva solo in piccola parte i classici, ma aveva intuito di stare insegnando qualcosa in larga misura presente già nei «maestri pagani», ovvero nella filosofia greca. Essa nasce e si sviluppa infatti proprio come una via del distacco, tanto che Platone la definisce «esercizio di morte», ovvero distacco dal corpo, dal molteplice, dal tempo. Alla fine della sua luminosa parabola, troviamo un’immagine della filosofia molto simile a quella della ricerca della sorgente ricoperta dalla terra: l’uomo – scrive Plotino - deve «scolpire la propria statua», ovvero portare alla luce sé stesso, distaccandosi da tutto ciò che è accidentale, superfluo, che occulta ed ingombra la sua vera essenza, così come lo scultore scolpisce la statua, già contenuta nel marmo, togliendo via il marmo che la ricopre. La ricerca del Bene è la medesima ricerca del nostro vero essere, che si fa appunto col distacco, per cui il filosofo greco riassume il suo insegnamento con le due sole, memorabili parole: Áphele pánta - distàccati da tutto. All’uomo completamente distaccato appare allora la «grande luce», che è esteriore e interiore, prima e fuori di lui, eppure anche presente e interna a lui. Luce che è Dio, ma anche luce che è l’uomo, pensa Plotino, tanto che nella sua lingua phos significa sia luce sia essere umano. A distanza di un millennio e senza conoscerle, in un sermone Eckhart pronuncia quasi alla lettera le parole: «Quando l’anima non si disperde nelle cose esteriori, giunge a sé stessa e risiede nella sua luce, semplice e pura». Questa, propriamente questa, è l’essenza dell’anima: luce, che appare quando si è liberi, distaccati da ogni elemento contingente, legato al tempo e allo spazio: «C’è una luce nell’anima, dove mai è penetrato il tempo e lo spazio. Tutto ciò che il tempo e lo spazio hanno mai toccato, mai è giunto a questa luce. E in questa luce l’uomo deve permanere ». Vivere la vita vera, la vita dello spirito: a questo esortano concordemente il filosofo greco e il domenicano tedesco. Non meraviglia che nel monaco medievale si trovi un pensiero quasi identico a quello della filosofia classica: come ha dimostrato Pierre Hadot, è infatti nella mistica che si riscontra l’eredità più vera della filosofia antica. Occorre però chiarire cosa deve correttamente intendersi per mistica. Mistica è parola di origine greca, nata però non come sostantivo, bensì solo come aggettivo, per indicare la riservatezza, la chiusura, e dunque innanzitutto il silenzio, anche esteriore, ma soprattutto interiore. Spiegando il versetto Dum medium silentium (Sap 18, 14), Eckhart spiega infatti come il silenzio in cui il divino si genera nell’anima sia il distacco, in cui ogni medium scompare, per cui l’«anima non conosce l’operare o il sapere, non sa niente di immagine alcuna, né di se stessa né di qualsivoglia creatura». Non vi sono dunque affatto conoscenze mistiche: in quanto distacco, la mistica libera da tutte le pretese conoscenze ed apre alla sola conoscenza dell’anima, e non nelle sue accidentali caratteristiche psichiche, ma nella sua essenza di pura luce. È verso il XVI secolo che mistica ha cessato di essere aggettivo e di indicare il silenzio, il distacco, per diventare sostantivo, con la pretesa di costituire una speciale conoscenza di Dio. Da allora si è avuto quel profluvio di incontrollabili “mistiche” che non poteva portare che alla loro squalifica, come infatti è storicamente avvenuto. Anche oggi, peraltro, mentre alla mistica guardano con interesse sia teologia sia psicologia, dobbiamo guardarci dal trasformare il mistico in mistificazione, perché il passo è breve, non solo linguisticamente.