La televisione è stata da sempre un importante fattore di trasformazione culturale. Nella seconda metà degli anni ’ 50 la televisione italiana ha svolto una funzione di unificazione linguistica e culturale del Paese, e ha socializzato gli italiani ai valori e al patrimonio culturale ( soprattutto letterario e artistico) della nazione, cercando di sollecitare nel pubblico un desiderio di miglioramento di sé e di avanzamento sociale ( nel 1954 il 51% degli italiani era analfabeta!). Oggi la televisione, che non è più solo nazionale ma è globale, sembra compiere l’operazione inversa, con due semplici operazioni: stroncando sul nascere ogni desiderio di ( reale) cambiamento, attraverso la dittatura del dato di fatto e la ridicolizzazione della critica – che diventa subito moralismo – o la sua demonizzazione – il complotto; esibendo, attraverso il suo genere oggi di maggior successo – il reality – una realtà alla portata di tutti, che non richiede nessuno sforzo per farne parte, dove anzi l’affiliazione si ottiene assecondando le inclinazioni e gli impulsi più immediati, per usare un eufemismo. Si produce così una ' iperrealtà', del cui carattere grottesco non ci rendiamo nemmeno più conto, proprio perché è stata diseducata ( dai media, in primis) la nostra capacità di pensare diversamente, di desiderare diversamente, di vedere le cose da un altro punto di vista. Tanto che consideriamo ormai ' normale' ( nel senso di ' ovvio', ' non problematico', ma anche di ' normativo') ciò che, guardato con altri occhi, non può che apparire grottesco e degradante. Quest’estate, su richiesta della più piccola, ho portato al delfinario le mie figlie, e sono rimasta colpita da alcune interessanti analogie. La vasca mi è apparsa improvvisamente come una illuminante metafora del ruolo dei media nella contemporaneità. Per l’addestramento dei simpatici mammiferi viene usato un bastone di legno con una sfera schiacciata, rossa, sulla punta. Il bastone rappresenta un’estensione del braccio, dell’istruttore ( e quindi un ' medium', secondo la definizione di McLuhan) e si chiama target (' obiettivo'). I delfini, con il rinforzo di una ricompensa in sardine fresche, imparano a seguire i movimenti del target e quindi a roteare, saltare, inabissarsi... Una volta appreso l’esercizio, il bastone diventa superfluo: basta la ricompensa. L’analogia mi è sorta spontanea: la televisione è una sorta di grande target che, coi modelli che ci ha proposto soprattutto negli ultimi trent’anni, in particolare con l’avvento delle televisioni commerciali, e con la ricompensa del riconoscimento e dell’applauso sociale ( senso di essere come gli altri e nello stesso tempo illusione di esprimere la propria individualità) ci ha addestrati a seguire istruzioni spesso assurde, provo- candoci per di più la gratificante sensazione, confermata dal plauso, sociale, di essere dei performer , dei protagonisti attivi anziché dei semplici spettatori. È vero che la ragazza della porta accanto che entra nel cast del Grande Fratello raggiungerà velocemente una celebrità ( altrettanto veloce nell’estinguersi) semplicemente ' esprimendo se stessa': ma se gli ascolti si abbassano, l’invito ad accendere un po’ l’atmosfera, con i soliti ingredienti ( risse, lacrime, sesso e trasgressioni varie) certo non mancherà, secondo un copione non scritto ma non per questo meno potente, che i ' rinchiusi' conoscono benissimo. Non so perché, ma i delfini ammaestrati di Rimini mi hanno richiamato immediatamente le performative audience di cui discettano tanti manuali contemporanei di studi sui media, i cui presupposti impliciti sono totalmente e a- problematicamente congruenti con le premesse implicite della cultura contemporanea. Per una sorta di metonimia da ' contiguità' il target siamo diventati noi stessi ( « Con la Tv lo schermo siamo noi » , scriveva McLuhan); e, come accade nel delfinario, una volta appreso l’esercizio non c’è più bisogno del bastone, basta la ricompensa, l’applauso. Una volta si diceva che i media erano ' agenzie di socializzazione', ovvero ambiti che, insieme a famiglia, scuola, Chiesa, mondo del lavoro e a tutti i mondi sociali organizzati, insegnavano agli individui a diventare membri competenti della società. La televisione ha da sempre svolto un compito di socializzazione, una sorta di formazione permanente prima rispetto alle trasformazioni della modernità ( l’alfabetizzazione, l’urbanizzazione, l’industrializzazione, i mutamenti nei rapporti tra i generi, la partecipazione politica ecc.) accompagnando e ammorbidendo l’impatto del mutamento rispetto a una serie di valori comuni che restano come criteri di orientamento nella trasformazione: l’identità nazionale su tutti, ma anche i valori legati alle profonde radici cristiane della cultura italiana. Con il processo di globalizzazione da un lato e di frammentazione- individualizzazone dell’altro, la televisione ha mantenuto il suo ruolo facilitatore, trasformandosi però in ' agenzia di desocializzazione', pronta a spingere l’acceleratore su tutti i processi di decostruzione del mondo sociale che animano la cultura contemporanea e cinicamente disposta a trasformare i dilemmi sociali in senso di minaccia personale ( l’insicurezza e incertezza di cui parla Bauman), che alimenta a sua volta soluzioni difensive iperindividualistiche, e polarizzazioni, ipersemplificazioni e stereotipi a livello collettivo. Oggi i ragazzi si formano certamente più alla scuola di Amici o del Grande Fratello che sui banchi di scuola. Da accompagnatrice discreta la televisione si è fatta grancassa grossolana, specchio che pretende di mostrare la realtà com’è, senza ipocrisie moraliste; specchio in cui la stessa realtà si consola, guardandosi riflessa proprio in quelle parti di sé di cui un tempo sentiva di doversi almeno un po’ vergognare, in un gioco di rifrazioni che produce le rappresentazioni tristemente grottesche del 90% della programmazione quotidiana odierna, servizio pubblico compreso. Vigeva, fino a non molto tempo fa, una profonda convinzione di etica dei media, il cui ruolo era definito watchdog, cani da guardia, rispetto agli eccessi e alle distorsioni che i diversi mondi, lasciati senza sorveglianza, tendono a produrre: lo Stato, gli attori economici, la politica, ma anche l’individualismo con i suoi eccessi. I media servivano a riequilibrare le diverse posizioni: pur rappresentandole, ne ricordavano la parzialità, suggerendo che c’è sempre dell’altro, un altro punto di vista dal quale poter guardare ai fatti, e richiamando all’ordine chi si comportava come se così non fosse. Oggi, più che cani da guardia, i media sembrano diventati cani da compagnia, pronti a scodinzolare a chi offre il biscotto più grosso. E, a cascata, il pubblico pare felice di fare lo stesso.