Anniversari. Marche, la strage di Braccano e il sacrificio di don Enrico Pocognoni
Partigiani della banda Mario. Il giovane con occhiali e binocolo è don Pocognoni
All’alba del 24 marzo 1944, ottanta anni fa, gli abitanti della frazione di Braccano, nel Comune di Matelica, in provincia di Macerata, vengono svegliati da una serie di colpi di mortaio provenienti dalle colline circostanti. I cannoni dei reparti speciali del reggimento Brandenburg scagliano granate a ripetizione soprattutto contro la chiesa parrocchiale: i tedeschi sono convinti che nella canonica e nelle case intorno alla piazza, ben protetti dal prete e dai contadini, si nascondano i partigiani del gruppo Roti. Così avevano riferito le loro spie. Il parroco, don Enrico Pocognoni, era stato arrestato nel novembre del ‘43 perché sospettato di aver prestato soccorso a soldati sbandati e a ricercati politici (tra cui i suoi ragazzi della Giac) e nascosto le armi dei ribelli. Ma non si trovarono prove né testimoni e fu rilasciato.
Quella mattina, circa duemila uomini, tra SS e militi fascisti del battaglione M “IX Settembre” cominciano una gigantesca azione di rastrellamento e rappresaglie attorno al Monte San Vicino, nella cui piana denominata Valdiola, in territorio di San Severino Marche, rintanati nei casolari, nelle stalle e nei granai, si trovava in effetti la maggior parte degli uomini comandati dall’istriano Mario Depangher e organizzati dal giovane imprenditore cattolico Enrico Mattei, che faceva la spola tra Matelica, la sua città, e Milano per poter provvedere ai fondi e alle armi necessari a sostenere la lotta partigiana.
L’attacco dei nazifascisti è concentrico e parte da ogni versante della montagna, l’obiettivo è stroncare le forze della Resistenza definite dal prefetto di Macerata «agguerrite e feroci». Fino all’imbrunire sarà una battaglia cruenta con scontri a fuoco, perquisizioni, agguati, saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri, massacri di partigiani e di malcapitati civili. Il campanile della chiesa è colpito quasi subito dagli attacchi tedeschi e il centro di Braccano, circa 500 residenti, viene accerchiato in silenzio. Chi può fugge ma appena fuori dall’abitato finisce nella rete tesa dai repubblichini e viene riportato indietro. Nessuno riesce a sottrarsi a quella morsa a cui partecipano anche i mezzi corazzati della Wehrmacht. I partigiani in servizio di pattuglia nella frazione non hanno il tempo di prendere in mano i fucili, perché vengono subito catturati. Ma i fascisti ricercano per primo don Pocognoni, il quale è riuscito a fuggire insieme a un gruppo di parrocchiani verso contrada Vinano: viene avvistato dai suoi inseguitori mentre si ferma a soccorrere un compagno di fuga colto da un attacco di epilessia. I militi in camicia nera, una quarantina, fanno presto a raggiungerlo, lo bloccano e lo riempiono di pugni e schiaffi per poterlo riportare inerme a Braccano, dove viene interrogato. Ma don Enrico si ostina a non rivelare i nomi dei partigiani che aveva aiutato, né dove fossero i loro covi e allora viene insultato, umiliato, percosso. Lo costringono a togliersi le scarpe e a camminare scalzo dentro una fossa piena d’acqua, in un campo di fronte alla scuola elementare del paese, viene obbligato a cantare il ritornello di Giovinezza e dopo qualche passo due miliziani da dietro gli riversano sulla schiena raffiche di mitra. Il sacerdote cade a terra ormai esanime ma un terzo uomo gli spara con una pistola il colpo di grazia in fronte. Più tardi, quando gli assassini se ne saranno andati verso la montagna a compiere altri orrori, le donne del paese gli puliranno il volto dal sangue e copriranno il cadavere con una coperta. Don Enrico aveva 32 anni. Nello stesso posto, qualche minuto più tardi saranno bastonati a sangue, dileggiati e uccisi a colpi di mitra tre partigiani appartenenti alla formazione multietnica del Battaglione Mario e sarà fucilata anche la sorella del sacerdote.
Il capitano Depangher nei suoi diari descriverà così la battaglia scatenatasi quel giorno sulle pendici del Monte San Vicino: «La lotta è in campo aperto: i boschi nudi, le macchie spoglie, la neve sulle alture, rendono troppo visibile ogni nostro movimento. Eppure grossi nuclei partigiani, con violente azioni di fuoco di armi automatiche pesanti e con improvvisi attacchi ravvicinati con bombe a mano e mitra, attaccano il nemico da tutte le parti. Solo verso le 13 i tedeschi riescono a scendere a valle e a occupare le quattro case che costituiscono Valdiola», dove si consumerà un’altra strage. «Dalle nostre posizioni dominanti e con gli attacchi improvvisi a distanza ravvicinata – scrive ancora il capo dei partigiani – infiggiamo gravi perdite al nemico che, alle 17 circa, desiste dall’impresa e si ritira». Ma sul campo rimarranno i corpi di una ventina di “ribelli” morti in combattimento, tra cui il comandante del reparto, Salvatore Valerio, mentre altri sei uomini saranno fatti prigionieri e seviziati dai fascisti con turpi pratiche: cinque di loro verranno gettati dal ponte di Chigiano nel torrente Musone, il sesto, un ufficiale russo, scapperà ma sarà ucciso nella vicina frazione di Corsciano. Secondo un testimone, figlio di contadini che allora aveva 14 anni, due dei giovani che vennero buttati nelle gelide acque del fiume erano ancora agonizzanti. I partigiani trucidati avevano tutti vent’anni.