Il caso. Quegli ebrei che fecero il calcio
La squadra di calcio del Casale campione d'Italia 1914
In Sport e Shoah, lo storico Sergio Giuntini scrive: «Si calcola che tra i sei milioni di vittime del nazifascismo, il martirologio sportivo abbia causato la morte di 60mila atleti, di cui 220 di alto livello». In quel computo tragicamente luttuoso mancano all’appello figure legate allo sport, al calcio in particolare, come quella di Raffaele Jaffe. Il fondatore del Casale Foot Ball Club, la società calcistica del Monferrato nata nel 1909, finì i suoi giorni nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ma il mitico padre patron dei nerostellati di Casale, gli acerrimi antagonisti dei “bianchi” della Pro Vercelli (nei primi due decenni del ’900 la formazione vercellese era la vera “Juventus” del pallone italico) è resistito al tempo, così come la storia della sua gloriosa creatura. L’anno in cui Jaffe mise insieme i ragazzi del Casale, la Pro Vercelli vinceva il suo 2° scudetto, al quale avrebbe fatto seguito un “triplete” dal 1911 al 1913, fino al settimo e ultimo sigillo tricolore del ’22. Stagione che aprì il ventennio del regime fascista di cui Jaffe, Giorgio Ascarelli e Renato Sacerdoti non furono degli avversori, ma pagarono comunque la loro origine e la fede ebraica. I tre sono i protagonisti dell’appassionante e documentato Presidenti( Giuntina. Pagine 136. Euro 12,00).
Il saggio di Adam Smulevich (già fine indagatore dei “salvataggi” degli ebrei compiuti da Gino Bartali), si legge il tempo di una partita di calcio e traccia mirabilmente i profili di «tre uomini scomodi», fondatori delle rispettive società calcistiche: il Casale di Jaffe appunto, il Napoli di Ascarelli e la Roma di Sacerdoti. Un’opera che ha il merito di allargare gli orizzonti della “Memoria” sul genocidio compiuto dal nazifascismo, partendo da un campo di pallone. Il fischio d’inizio per Smulevich è suonato «in vista dell’ottantesimo anniversario delle leggi della Vergogna, annunciate da Mussolini in piazza Unità d’Italia a Trieste, il 18 settembre 1938, questo libro – scrive – si propone di gettare nuova luce su tre figure particolarmente significative». E infatti colpisce a chi assiste ormai a un mondo come quello del calcio odierno diventato mega-showbusiness dominato da cordate di maneggioni senza scrupoli nè grande cultura (specie sportiva) che il padre patron del Casale fosse un intellettuale. Il professor Jaffe, laureato in scienze naturali e chimiche, fu docente e poi preside alla Scuola Normale femminile Giovanni Lanza, ma al tempo in cui diede inizio all’avventura del Casale Foot Ball Club era insegnante al Leardi, l’istituto tecnico più antico d’Italia. E quella scolastica fu anche la “cantera” a cui attinse per reclutare i “pionieri” del football che faceva allenare e giocare nell’assai poco regolamentare Campo del Vecchio Bersaglio (90 metri di lunghezza per 46 di larghezza), alias il Priocco.
In appena un lustro quella ragazzaglia forte e che giocava un “calcio di classe” anche fuori dalle aule del Leardi, divenne prima campione del Piemonte (nuova forza del “quadrilatero” comprendente Vercelli, Novara e Alessandria). L’unico, storico tricolore del Casale, è datato luglio 1914 quando i nerostellati in finale sconfissero la Lazio, in casa e nel ritorno a Roma. «Come premio scudetto, un lusso raro, il ritorno in treno in Piemonte avviene non in terza ma in seconda classe». Le cinque stelle dello stemma che dovevano propiziare l’arrivo all’apice del calcio nazionale brillavano al sole della stazione di Casale dove Jaffe e i suoi ragazzi vennero accolti da eroi. E il più eroico di quella gloriosa società era proprio il «Presidente». Per i suoi ragazzi Jaffe rappresentava «un’autentica guida spirituale», un uomo sempre «buono, sorridente e generoso». Il Professore del pallone aveva anche il dono raro dell’imparzialità: dopo alcuni arbitraggi impeccabili delle gare del suo Casale la Federazione lo nominò «arbitro ad honorem». Un monumento vivente che solo la mannaia nazifascista avrebbe potuto abbattere. Eppure Jaffe nel 1927, a Cuneo, aveva contratto matrimonio con Luigia Ceruti, insegnante anche lei, e dieci anni dopo alla vigilia della stagione più nera nella storia italiana (quella della promulgazione dell leggi razziali) si era convertito al cattolicesimo. «Non ho inteso con questo fare uno spregio alla fede dei miei indimenticabili genitori», scrisse Jaffe della conversione nel suo testamento. Ma l’aver abbracciato la fede cattolica non lo salvò dal marchio a fuoco di «Jude». Dopo la lunga prigionia a Fossoli, quando il papà del Casale arrivò ad Auschwitz finì nel girone dei «troppo vecchi», le vittime designate, assieme agli infermi, della soluzione finale. Jaffe morì il 5 agosto del 1944. Tre anni prima, nell’aprile del ’41, uno dei suoi pupilli scudettati del ’14, il «corazziere» Luigi Barbesino, cadde eroicamente in un blitz aereo in Sicilia. Barbesino nel quadriennio 1933-’37 era stato l’allenatore della Roma del presidente Sacerdoti. L’uomo del popolo romanista che si riuniva sugli spalti lignei del mitico Campo Testaccio. Un tempio quello capitolino, sorto vicino al Monte dei Cocci che è andato perduto ma i suoi resti evocano ancora lo stesso fascino poetico del redivivo stadio Filadelfia, la casa del Grande Torino. Quando nel 1927, dalla fusione delle tre società capitoline, Alba, Fortitudo e Roman, si costituì l’As Roma, Sacerdoti salito alla presidenza (al posto di Italo Foschi) realizzò lo stadio testaccino. Il mitico Campo Testaccio accudito dai trilussiani custodi, Zì Checco e la moglie Angelica, fu teatro di battaglie gladiatorie per il bomber fiumano Volk, il “dottore” Fuffo Bernardini - uno dei rarissimi laureati prestati al pensatoio con i piedi - e il “fornaretto” di Frascati, Amadeo Amadei. Dopo un 5-0 rifilato dalla Roma alla Juventus, il regista Mario Bonnard fu talmente ispirato dalla “manita” giallorossa da girarci su un film (l’omonimoCinque a zero, con Ferraris IV e Bernardini che interpretano se stessi). Una trama drammatica invece, attendeva patron Sacerdoti, convertito anche lui al cattolicesimo ma per il regime del “filo laziale” Benito Mussolini un nemico da condannare a cinque anni di confino. Una pena dolorosissima, scontata fino alla fine della seconda guerra, e di cui restano testimonianze nelle lettere spedite da Sacerdoti ai familiari dai suoi domicili coatti di Ponza, Ventotene e Portici di Bellavista. In quest’ultimo approdo napoletano circolava ancora il nome di Giorgio Ascarelli, il presidente più illuminato della storia del calcio partenopeo. Il figlio di Salomone Pacifico e Bice Foà, possedeva le “stimmate” del presidente moderno: panchina affidata al futuro condottiero juventino Carlo Carcano e visione societaria in linea con la rivoluzionaria Carta di Viareggio (per la prima volta distingueva i calciatori da dilettanti e non dilettanti), sottoscritta il 2 agosto del 1926, il giorno seguente alla fondazione della Società Sportiva Napoli Calcio.
Ma soprattutto, Ascarelli fu il primo massimo dirigente ad aver investito e realizzato uno stadio di proprietà. Lo stadio Vesuvio, dove, dopo la sua morte prematura - per peritonite, nel 1930, aveva solo 36 anni - si giocò la finale del 3° posto dei Mondiali del 1934 (vinti dall’Italia del “tenente” Vittorio Pozzo) tra l’Austria e la Germania hitleriana. I tedeschi vinsero (3-2) su quel campo intitolato a un ebreo ma che per la stampa di regime poi sarà semplicemente il Vesuvio. Il terreno di gioco dove durante una sfida con la Juventus un “ciuccio” fece invasione di campo e da allora l’asino è diventato il simbolo del Napoli Calcio. Il nome di Ascarelli venne defalcato dal fascismo, tolto per sempre dalle insegne dello stadio Vesuvio. Oggi Ascarelli è riapparso è il nome dato al periferico impianto di Ponticelli. Troppo poco rispetto a ciò che ha dato quel giovane illuminato a un calcio che, grazie anche a figure come la sua, era ancora uno sport poetico. Quello di Ascarelli era un Napoli in cui il bomber, l’oriundo paraguayano Attila Sallustro, giocava ma a patto di non ricevere compensi, per via di una promessa fatta al padre. Qualcuno racconti queste tre storie di presidenziali piene di umanità ai nuovi tycoon cinesi, agli americani della Roma e al cinepresidente del Napoli Aurelio De Laurentiis. Loro sono i nuovi padroni di un calcio che per Sacerdoti, già nel 1958, anno in cui lasciò per sempre la Roma, non era più un gioco. «Per noi vecchi presidenti – disse allora il papà dei giallorossi – lo sport è stato romanticismo, passione schietta, e oggi non possiamo accettarlo come affare e come veicolo pubblicitario. Ben vengano gli altri presidenti, noi ce ne andiamo».