Calcio. È morto Totò Schillaci, il bomber delle Notti magiche di Italia '90
Totò Schillaci
Come è buia e assai poco magica questa notte: sarà la prima senza Totò Schillaci. Vola via leggero, a 59 anni per un male difficile anche da dire, il bomber azzurro che ci fece sognare in quelle Notti magiche inseguendo un gol (cantavano in tandem Gianna Nannini e Edoardo Bennato) dei Mondiali italiani del ‘90. La fine di un decennio che ci aveva visti campioni del mondo nell’82, e noi ragazzi alla fine dell’adolescenza guardavano con occhi stupiti l’inizio di un nuovo decennio che poteva aprirsi con un altro titolo iridato degli azzurri guidati da quel gran signore del ct Azeglio Vicini. Che peccato invece: eliminati in semifinale a un passo dal sogno. Fatti fuori dall’Argentina di Maradona, nel suo stadio, a Napoli. Sconfitti ai rigori. E anche in quella partita Totò aveva messo la sua firma: al 17’ segnò il gol dell’1-0 che ci apriva le porte della finale. Un lampo di gloria, prima dell’uscita a farfalle di Zenga (il miglior portiere del mondo in quel momento) e l’inzuccata velenosa di Caniggia. L’Italia tutta quell’estate del ’90 si era identificata nella voglia di riscatto del ragazzo del popolo, Totò era un picciottu del Cep di Palermo. Uno che ce l’aveva fatta Schillaci, dal Messina a suon di gol, a 25 anni, era arrivato a stregare persino la Juventus dell’Avvocato Agnelli.
Ultimo simbolo della "Juve dei meridionali"
L’ultimo simbolo della Juve dei meridionali che faceva simpatia solo a guardarlo. E lui ricambiava con quegli occhi spiritati dopo ogni gol segnato. Capocannoniere di quel Mondiale, come Pablito Rossi al Mundial dell’82. Ma la Coppa sotto il cielo di Roma l’alzarono i tedeschi con Maradona in lacrime. E adesso Diego Lassù può riabbracciare il nostro Totò nazionale che con le sue magie e le sue innocenti evasioni è stato un bel pezzo di storia di cuoio. Un bomber sincero, spontaneo e generoso. Uno che però alla stampa spocchiosa savoiarda piaceva poco per quel passato da gommista che ispirò il coro feroce della sponda Toro: «Ruba le gomme, Schillaci ruba le gomme». A difenderlo dalle colonne di Tuttosport c’era ancora il suo concittadino, la bella penna bianconera Vladimiro Caminiti che però nulla poteva per evitare a Totò le svirgolate grammaticali e quelle dichiarazioni alla Catalano (il filosofo dell’ovvio di Quelli della notte di Renzo Arbore) tipo “Per vincere bisogna segnare, e per segnare bisogna fare goal”. Frasi che erano la gioia dei pennivendoli professorini che sottolineavano l’ignoranza del calciatore che quando si infuriava minacciava di sparare all’avversario. «Ti faccio sparare», Totò per frustrazione quella brutta frase la pronunciò una sola volta, a Bologna contro il povero Poli, ma poi si era pentito, con tutto il cuore. Un cuore e una storia semplice quella di Totò, il cui racconto si ritrova per intero nel suo autobiografico Il gol è tutto (Piemme).
Unico rimpianto, quel Mondiale del '90, capocannoniere senza Coppa
Un giorno, neppure troppo tempo fa quello libro lo sfogliammo insieme a un Totò che era rimasto il ragazzo di sempre, nonostante il pizzetto e un look da cinquantenne giovanile che nel tempo si era scafato con viaggi per il mondo, talk televisivi (in cui mostrava una comicità istintiva alla Franco Franchi e Ciccio Ingrassia) e una chiusura di carriera in Giappone, al Jubilo Iwata. Il primo calciatore italiano ad andare a giocare a quelle latitudini. Parlammo anche del Giappone, ma inevitabile la prima cosa fu tornare alla notte sciagurata di Napoli e al Mondiale del ’90. «Arrivare solo terzi da imbattuti, con appena un gol subito da Zenga fino alla semifinale, ed essere buttati fuori ai rigori dall’Argentina, dopo aver bloccato Maradona... Sono cose che anche a distanza di tanto tempo ci ripensi e sì, fanno un po’ male. Ma è andata così, fa parte del gioco», raccontava scanzonato con il sorriso allegro di chi si sentiva felice e appagato. «Sono stato molto fortunato nella mia carriera. Ho cominciato a giocare sull’asfalto nella strada del mio quartiere a Palermo, circondato da gente che ha conosciuto la fame e la galera. Io ce l’ho fatta superando continuamente tutte le sfide che si sono presentate e afferrando al momento giusto l’occasione che mi veniva data». Il senso della sfida l’aveva trasmesso ai ragazzini della sua scuola calcio palermitana. «Ho trecento ragazzi nella scuola di via Leonardo da Vinci - diceva con orgoglio - e a loro insegno ogni giorno che se fai sport e ti allontani dai pericoli della strada prima o poi si presenterà la buona chance. L’importante è saper trovare una passione, e che sia per un pallone da calcio, da pallavolo o da rugby, per un paio di scarpette di danza o per uno strumento musicale, l’importante è che tu segua la tua passione e la tua vita diventerà più facile e sicuramente migliore. Io questo ho fatto, ho solo assecondato la mia passione di bambino e sono arrivato al grande calcio».
La lezione appresa dal "Professore" Scoglio trasmessa ai ragazzini della sua scuola calcio
Nel suo diario dei ricordi c’erano tutte le partite giocate da bambino e poi la scoperta di un maestro: il “Professore” Franco Scoglio incontrato sulla via di Messina. «Il Professore è stato uno dei tecnici più bravi e purtroppo più dimenticati del nostro calcio. Scoglio è sempre presente nel mio cuore. La lezione più importante del Professore? Mi ripeteva: “Totò vai in campo e gioca come sai, vedrai che il gol arriverà”. Aveva ragione». Nell’89 quando cadde il Muro di Berlino Schillaci si ritrova nuovo bomber della grande Juventus degli Agnelli. «Un passaggio facilitato dall’incontro di amici veri in campo e fuori, come Tacconi, il terzino Napoli e poi il più grande campione che ha espresso il calcio italiano negli ultimi quarant’anni, Roberto Baggio. Roby è stato il nostro Maradona e l’ha dimostrato ancora di più quando ha chiuso la sua carriera in provincia, al Brescia». Alla Juve con Trapattoni ci furono momenti di grande tensione quando il giorno della strage di Capaci disse a Totò: «Avete ucciso anche Falcone…». «Quella sera mi presentai a tavola con la squadra ignorando la notizia... Il Trap si voltò verso di me e disse quella frase, ma non lo fece con cattiveria, era soltanto addolorato e sconvolto per l’accaduto. E io più di lui: lì per lì me la presi, oggi so che la morte dei giudici Falcone e Borsellino, delle loro scorte e di tutte le vittime di mafia non è certo imputabile al popolo siciliano che è composto da gente che vive del proprio lavoro e non ha niente a che fare con la malavita».
«Dio unisce tutti i puntini per creare il nostro disegno e io mi sono sempre trovato nei puntini giusti»
Oggi gli ultrà se la prendono con i calciatori di colore, ieri invece si accanivano contro quelli meridionali come Schillaci e sull'argomento Totò si accalorava: «Sono cose che mi danno molto fastidio, anche perché da sempre è un costume tipicamente italiano. Io non me la sono mai presa più di tanto e ho capito che un calciatore l’unica risposta agli ignoranti può darla solo in campo, giocando al meglio e divertendo la maggior parte della gente che va allo stadio per assistere a uno spettacolo e non per insultare il meridionale o il ragazzo di colore». Schillaci era un uomo di grande sensibilità e prima di quella per il calcio la sua fede era rivolta a Dio. Anche nei giorni dolorosi della malattia non ha mai smesso di pregare e i suoi occhi erano ancora accesi a ricordarci, come quel giorno del nostro incontro, che «Dio unisce tutti i puntini per creare il nostro disegno e io mi sono sempre trovato nei puntini giusti. Unendoli, uno dopo l’altro, è venuto fuori lo splendido disegno che sto vivendo: altri giorni e notti magiche, e questo lo considero un dono divino».