Il giornalista sportivo scomparso a Roma. La morte di Galeazzi: addio, gigante buono
È morto Giampiero Galeazzi. Il giornalista sportivo aveva 75 anni ed era malato da tempo. Storico telecronista Rai, conduttore ed ex canottiere, Galeazzi era nato a Roma il 18 maggio 1946.
«Aho Primula, ma dove sei stato? Nun te fai mai sentì?». Questo era il saluto di Giampiero Galeazzi all’inizio di ogni nostra telefonata. E adesso che Giampiero è volato via, mi mancheranno tanto quelle conversazioni piene di risate. Sono stati botta e risposta divertenti e paterni con il mio, il nostro, gigante buono. Un giorno a Giampiero glielo dissi. Mio padre, Mario Castellani, («come la Spalla de Totò, certo», sorrideva divertito), nato il 16 maggio 1946, è stato l’uomo che mi ha fatto innamorare del pallone: a sei mesi mi portò allo stadio a vedere Lazio-Juventus. Tu, nato il 18 maggio del ’46, con quella di Nando Martellini e Beppe Viola, sei stata la voce che mi ha fatto capire che questo del narratore di storie di sport poteva diventare il mio mestiere. «Sto’ mestiere del giornalista è il più bello che c’è ricordatelo. Aho, io ho girato il mondo, incontrato tutti, e me pagavano pure», diceva con orgoglio e un pizzico di nostalgia per quella vita sempre in trasferta, da uomo Rai, cominciata subito dopo la laurea in Economia (tesi in Statistica).
«Mi chiamarono alla Fiat in quanto atleta, canottiere, ma so’ ritornato subito a Roma a fa’ il vitellone con la benedizione de mamma... Se non me fossi rotto una gamba giocando a pallone avrei anche continuato a gareggiare». Olimpionico del canottaggio che abbandona la barca, «perché un funzionario un po’ fascistone che frequentava il Circolo Canottieri me presentò in Rai... Quando Evangelisti mi vide entrare fece al mio pigmalione: “Oh ma chi è sto “bisteccone” che c’hai portato?” Da quel momento, per tutti so diventato Bisteccone nazionale».
Quando raccontava Giampiero era più divertente dei personaggi di Carlo Verdone: un Manuel Fantoni, con la differenza che ogni suo aneddoto non era frutto di fantasia, l’aveva realmente vissuto. Tipo quando avvicinò l’Avvocato, Gianni Agnelli, e come prima domanda chiese: «Secondo lei in Italia ci sono più juventini o democristiani? E l’Avvocato: “Mi documenterrrò e poi le farrrò saperrre”... Aho, pensavo me liquidasse a calci, e invece, scortato da un esercito di guardie del corpo mi invitò a cena con Platini e tutta la Juventus».
Platini rideva appena lo vedeva in fondo al tunnel degli spogliatoi, appollaiato come un’aquila microfonata. Maradona voleva essere intervistato solo da Galeazzi. «Il giorno del primo scudetto del Napoli me chiusi a a chiave con Diego dentro a uno sgabuzzino del San Paolo. Fuori c’erano duecento inviati da tutto il mondo che quando so’ uscito me volevano lincià... Diego se divertiva a parlà solo con me, ma alla lunga l’ho pagata... Questa è una Repubblica fondata sull’invidia altro che sul lavoro». Destino di un talento che era nato per giocare da prima punta del piccolo schermo. «Quando me ne andai dalla radio per passare alla tv, Guglielmo Moretti mi disse minacciandomi in romagnolo stretto: “Ricordati, se un giorno ti incontrassi sanguinante non ti soccorrerei”. Ameri invece mi prese da parte e mi disse: “Giampiè, qui sei il numero 35, lì potresti diventare il numero uno”. C’aveva ragione, In poche settimane ero la voce e il volto dello sport del Tg1».
Voce e volto inconfondibile dall’Olimpico di Roma per 90° Minuto. «Una squadra irripetibile quella, guidata alla perfezione dal carisma di Paolo Valenti». Collegamenti da fuoriclasse, a partire da quel Mundial dell’82 in cui giocava in tandem con Beppe Viola. «Io ce mettevo er fisico e la grinta de chi se buttava dentro un pullman in corsa per una dichiarazione de Bearzot. Beppe c’aveva la scrittura e le idee di uno che era di un’altra categoria».
Due pesi massimi, con Galeazzi che si muoveva per gli stadi da centravanti di sfondamento. «Alla finale dell’82, Italia-Germania 3-1, urlo “campioni del mondo” direttamente dal campo. C’avevo già Paolo Rossi sotto l’ascella. I poliziotti spagnoli me manganellavano. Aho, quelli pensavano che stessi a strangolà “Pablito”». La presa olimpica di Giampiero che, scanzonato, aveva debuttato ai Giochi di Monaco ’72 «sfiorando i terroristi palestinesi di Settembre Nero».
Ma il suo momento di gloria fu alle Olimpiadi di Seul ’88. «Quell “Andiamo a vincere!” con cui “spinsi” i fratelli Abbagnale alla conquista dell’oro è diventato anche il titolo della mia autobiografia. Quel giorno avevo strillato talmente tanto che alla fine ero più stanco e sudato più di loro. Ma quanto ero felice... Ogni volta che ci ripenso è un po’ come se ce fossi salito pure io su quel podio». Si commuoveva Giampiero quando ripensava a quella diretta leggendaria. Galeazzi eterno innamorato del canottaggio, padrone del Foro Italico, «al microfono ho fatto più tennis de “er Maestro”, Nicola Pietrangeli», e custode di tutti gli amarcord laziali. Il giorno del secondo scudetto della Lazio (14 maggio 2000) fu capace di abbandonare la postazione del Foro Italico e la diretta della finale degli Internazionali di tennis per scappare all’Olimpico.
«Aho, lascio i telespettatori per un’ora a microfono spento. Me fiondo allo stadio, salgo in tribuna Monte Mario e tutti che m’abbracciano... Non c’era un collega, stavano tutti a Perugia per lo scudetto della Juve e invece lo scudetto era lì, della mia Lazio. E io faccio l’unico servizio Rai». Un fantasista Galeazzi, capace di ballare, cantare e recitare per cinque anni a Domenica In al fianco di Mara Venier che lo adorava a Bisteccone suo. «Mara è un genio, capì prima di tutti che spettacolo e calcio so come due amanti che assieme stregano er popolo. Risultato? Facevamo 11 milioni di telespettatori, 40% di share. Gli invidiosi come sempre m’attaccarono, per loro io avrei dovuto intervistà il centravanti della Nazionale per tutta la vita...». L’insostenibile pesantezza degli esseri. Giampiero invece era un uomo profondamente leggero, nonostante quella stazza impressionante che gli faceva festeggiare anche il minimo segno di dimagrimento. «Aho, sto a 130 chili. Però niente da fare, ormai le scale le affronto come la mangusta attacca al serpente». Battutaro alla Sordi, satira da scuola Marchesi-Flaiano, perchè cresciuto all’«Accademia dei Giganti della radio telecronaca: Ameri, Ciotti, Giubilo, Martellini... Quelli de oggi? So’ specialisti del sensazionalismo. Il più bel complimento che ho ricevuto me lo fece Sandro Petrucci che mi ripeteva: “Tu c’hai tre anime, quella popolare degli stadi di calcio, l’aristocratica del tennis e poi quella romantica di uno sport povero e di fatica come il canottaggio».
La quarta anima, era quella del marito di Laura, del papà premuroso di Gianluca e Susanna e il nonno tenerissimo della sua piccola Greta. Aveva coronato tutti i sogni, l’ultimo sarebbe stato quello di «tornare a Testaccio, a mangiare gli spaghetti alla Piccola Amatrice, aho la signora m’aspetta». Ti aspettavano in tanti Lassù. Te ne sei andato con il sorriso e l’allegria degli uomini giusti, e a noi, tuoi figliocci professionali, ci hai salutato dicendo: «Non ho rimpianti. Ho dato l’anima per sto’ mestiere... M’hanno insegnato a trasmettere emozioni. Ma per farlo, non te dimenticà Primula: devi stare dentro l’evento, sempre...». Ciao Giampiero.