Agorà

ANNIVERSARIO. E l’esperanto va

Massimiliano Castellani martedì 6 ottobre 2009
Zamenhof ed Esperanto so­no due asteroidi che ruota­no fra le orbite di Marte e di Giove; a scoprirli, nel 1936 e nel 1938, fu l’astronomo ed emi­nente esperantista Yrjö Väisälä. Ecco una delle sagge informazio­ni che Louis Christophe Zale­ski- Zamenhof, nipote dell’inventore dell’e­speranto Ludwik Lejzer Zamenhof, fornisce nel libro­intervista di Ro­man Dobrzyn­ski Via Za­menhof (Giuntina, pp. 282, euro 15, in libreria dal 15 ottobre). A 150 anni dalla nascita del polacco­lituano Za­menhof (Bia­listok 1859 – Varsavia 1917) e a oltre un se­colo da quella della sua «creatu­ra » (26 luglio 1887), per i più l’esperanto resta ancora un tema di portata astro­nomica. Fu del resto una missione spi­rituale, prima che gramma­ticale, quella di creare una sintassi per l’universo; e Zamenhof la compì anche in virtù della sua radice ebraica: «La necessità di una lingua inter­nazionale (in esperanto: lingvo internacia ) su un piede di parità nessuno la può sentire tanto quanto un ebreo che è obbligato a pregare Dio in una lingua mor­ta da tanto tempo, che riceve la sua istruzione nella lingua di un popolo che lo respinge, che ha compagni di sofferenza in tutto il mondo e non si può capire con loro…». Così scriveva Zamenhof, autore del Primo Libro, che altro non era se non un opuscolo di 40 pagine di cui appena 6 dedicate alla «grammatica completa» e un altro paio in cui aveva fatto stam­pare il vocabolario con le «900 ra­dici » della nuova lingua. Un gran­de calderone linguistico in cui il Doktoro Esperanto, conoscitore e amante del latino e greco, aveva accuratamente gettato gli odori e i sapori di alcune lingue neolati­ne, il tedesco e l’inglese in primis, poi una spruzzata di quelle slave, con russo e polacco ingredienti naturali. «Dal sistema grammati­cale Zamenhof scelse abilmente quanto è comune, le cose più semplici, e subordinò il tutto a u­na regolamentazione senza acce­zioni », sottolinea il nipote. Que­sto perché le due qualità fonda- mentali dell’esperanto, secondo il suo fondatore, dovevano essere la straordinaria semplicità e quindi la facilità nel parlarla. Due problemi che per Zamenhof e gli esperantisti della prima ora, tro­varono rapida soluzione. «La fa­cilità del suo studio è così grande – è la testimonianza della grande anima della letteratura russa Lev Tolstoj – che avendo ricevuto 6 anni fa una grammatica, un vo­cabolario e degli articoli scritti in questa lingua, dopo poco più di due ore po­tevo se non scrivere, al­meno leggere liberamente in questa lin­gua ». L’idea di universali­smo e di frui­zione libera e veloce della lingua fu la ve­ra «speranza» di Zamenhof; u­na liberalità che ha permesso all’e­speranto di soprav­vivere e di dare una spallata anche al tentati­vo di annienta­mento che – prima dei ma­lefici totalitari­smi del ’900 – fecero alcuni suoi nemici, linguisti con­correnziali. A cominciare dai seguaci del vo­lapük – «lingua del mondo» –, altro idioma artifi­ciale internazionale apparso po­co prima dell’esperanto. A conce­pirla era stato il prete cattolico di Baden e poliglotta (conosceva 70 lingue) Johann Martin Schleyer: «Il quale – spiega il nipote di Za­menhof – aveva creato un voca­bolario di parole inglesi e tede­sche abbreviate a una sola silla­ba ». Ma il volapük si estinse in fretta, era lingua morta già prima della scomparsa di padre Sch­leyer, avvenuta nel 1912. La di­sponibilità di Zamenhof a modi­fiche e miglioramenti, invece, e­merse subito al primo convegno di Boulogne-sur-mer nel 1905, in cui si diedero appuntamento e­sperantisti di 20 Paesi. Oggi i fe­delissimi sono presenti in 120 Stati, con eminenze grigie che u­sano l’esperanto per pubblicazio­ni di vario genere, da quelle scientifiche alla filosofia, alla poesia (lo scozzese William Auld, il sudafricano Edwin de Kock, il brasiliano Sylla Chaves), alle tra­duzioni della D ivina Commedia, del Corano, della Bibbia. Proprio scendendo dagli scalini sdruccio­li della Torre di Babele, l’idea di una lingua internazionale si ri­trova nell’Utopia di Tommaso Moro, nelle opere di Nostrada­mus, Cartesio, Leibniz, Comenio, Newton, fino al «Solresol» di Su­dre, ovvero la combinazione delle note musicali che si fa lingua «formando 13.699 parole». Tutti falliti tentativi di regalare all’u­manità una lingua unica prima di arrivare alla tipografia Kelter di Varsavia, che stampò la prima copia dell’e­speranto, no­nostante sia ancora irrisol­to il terzo pro­blema fonda­mentale di Za­menhof: ovve­ro quello di u­na massima divulgazione che riuscisse a «vincere l’indifferenza del mon­do ». Ma l’esperanto è vivo, conta quasi due milioni di persone sparse nel pianeta in grado di comprenderlo e divulgarlo; come fa – tra l’altro – la cattolica lnter­nacia Katolika Unuigo Esperanti­sta. «Negli ultimi anni soprattutto Internet è diventata una grande scuola e una biblioteca di espe­ranto. Molte opere non vengono più stampate, ma sono consulta­bili in rete». È la voce della terza generazione degli Zamenhof, quella di Louis Christophe, a ri­cordare che al terzo problema di nonno Ludwik forse suo pa­dre Adam ave­va trovato la soluzione: l’in­troduzione nelle scuole. E questa è forse la grande sfida esperantista del Terzo Mil­lennio, una strofa da aggiungere al loro inno La Espero dal quale da più di un secolo cantano al mondo: «Sotto il segno santo della speranza/ si raccolgono combattenti di pace/ e veloce cresce la Cosa/ con l’im­pegno di chi spera»..