«C’è un tempo per ogni cosa», dice il Qoelet. Per tacere, per ridere, per ballare, ma anche per lottare. Oggi si può dire con fermezza che per molte religiose d’Italia la Resistenza fu un periodo in cui non si poteva certo rimanere con le mani in mano. Non imbracciarono un fucile. Non salirono in montagna. Ma preghiera e azione consentirono a queste donne temerarie di dare un contributo alla Liberazione non inferiore a quello dei partigiani. Furono soccorritrici, informatrici, infermiere fino a mettere in gioco la propria vita. Nei casi più difficili le religiose si servirono anche del proprio abito per nascondere missive segrete, alimenti, indumenti e perfino bambini. Un convegno di studi ieri a Milano ha rispolverato una pagina di storia ancora troppo taciuta. L’evento, promosso dalla fondazione Ambrosianeum e dall’Azione cattolica ambrosiana, ha fornito un campionario incredibile di testimonianze provenienti da numerose città e regioni d’Italia. «Purtroppo - ha attaccato Giorgio Vecchio, docente di Storia contemporanea all’Università di Parma - il ruolo delle suore nella Resistenza finora è stato ignorato. Nei manuali di storia non esistono. C’è la falsa convinzione che la Liberazione fu soltanto un evento militare. Si dimentica il grande apporto della lotta non armata, come il boicottaggio, il sabotaggio, la stampa clandestina, il salvataggio dei perseguitati. Le suore coinvolte furono tante anche se abbiamo poche testimonianze dirette. Ma spicca il memoriale di Madre Imelde Ranucci delle Francescane dell’Immacolata di Palàgano vicino Modena che descrive il rifugio offerto nel proprio convento a partigiani ed ebrei». Gli esempi però sono copiosi: «Come non ricordare - ha continuato Vecchio - Madre Jole Zini che a Villa Minozzo vicino Reggio Emilia si offrì come ostaggio ai tedeschi in cambio della fucilazione dell’intera popolazione… O suor Enrica Donghi che nell’assistenza ai carcerati di San Vittore a Milano confessò come le religiose nei libri di preghiera portavano biglietti clandestini ai detenuti politici e sotto le ampie sottane delle consorelle appuntavano con le spille indumenti per i prigionieri tanto che gli stessi secondini sbottarono: 'Queste suore escono magre e rientrano ingrassate'». Tuttavia lo storico ha anche ammesso: «Come in tutti gli eventi ci furono anche esempi negativi, di suore che fecero finta di niente magari per paura o incapacità. Accanto però a religiose straordinariamente generose negli ospedali o nell’allestimento di interi spazi dei conventi come il refettorio per le riunioni notturne dei partigiani. Ci furono persino casi in cui come a Fontanigorda, vicino Genova, suor Maria, una suora di clausura si vestì da laica e si finse sposa di un giovane partigiano che stava per essere ucciso dalle SS. E non dimentichiamo il disagio dell’accoglienza di persone di sesso maschile nei monasteri». In alcuni avvenimenti fu evidente una mano dal cielo. In Piemonte suor Margherita Lazzari durante i rastrellamenti del 1944 creò un nascondiglio nel sottotetto di un santuario per partigiani e militari alleati.Per occultare la nicchia pose all’ingresso un quadro di santa Lucia e i nazifascisti non riuscirono mai a scovarli. Ma il convegno ha rimembrato anche le gesta delle religiose a Milano, Brescia, Vicenza, le reti di soccorso agli ebrei realizzate dalle suore toscane e l’impegno delle clarisse di San Quirico di Assisi: qui le 25 sorelle che per la penuria di alimenti dimagrirono anche di 20 chili non si preoccuparono di ospitare decine di perseguitati. E collaborarono alla stesura di documenti contraffatti per nascondere gli ebrei: perfino Gino Bartali arrivava lì da Firenze nascondendo nel telaio della bicicletta foto e certificati falsificati. «Ma siamo solo all’inizio delle ricerche - hanno convenuto Marco Garzonio, presidente dell’Ambrosianeum e Gianfranco Maris presidente nazionale dell’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti - c’è un enorme vuoto storiografico da colmare». Suor Grazia Loparco, docente alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium ci tiene però a precisare: «Anche a Roma dove furono salvati più di 4.300 ebrei ci fu un’intensa collaborazione tra tutti gli istituti religiosi, maschili e femminili, i parroci e la Santa Sede. Ora però bisogna far luce anche su tutti gli altri rifugiati salvati, non solo gli ebrei». Toccante è stata la testimonianza di monsignor Giovanni Barbareschi della diocesi di Milano sulla sua prigionia nel carcere di san Vittore: «Quando c’erano gli interrogatori eravamo terrorizzati. Spesso si usciva bastonati e torturati per sapere come si stampava 'Il Ribelle', il nostro giornale clandestino. Una volta mi ruppero il braccio ma ringrazio il Signore per non aver parlato». E il sacerdote ha lanciato la proposta: « Nelle città e nei paesi in cui c’è stato un Istituto di suore che ha contribuito alla Liberazione dedichiamo una via alle 'Suore della Resistenza' ». Sull’esperienza del carcere milanese di quegli anni e in particolare sulla figura di suor Enrichetta Alfieri che l’anno prossimo potrebbe essere beatificata si è soffermato anche monsignor Ennio Apeciti, storico della Chiesa: «Il segreto di suor Enrichetta, come quello di tutte le religiose coinvolte, stava nella preghiera: durante la reclusione il rosario fu la sua forza. Tanti detenuti hanno ricordato la sua instancabile assistenza, tra essi anche molti laici come Mike Bongiorno e Indro Montanelli il quale disse: 'Le sarò grato per sempre. Tutti noi ricevevamo, grazie alla sua regia, bigliettini e informazioni. Così grande era il conforto di quegli incontri furtivi, così immensa la gratitudine per chi con grande rischio personale li rendeva possibili, che ancora oggi il ricordo di suor Enrichetta e della sua veste frusciante suscita in me la devota ammirazione che si deve ai santi, o agli eroi. In questo caso ad entrambi' ».