Lo smartphone protetto dal quarto emendamento. È una sentenza che segna uno spartiacque nella giurisprudenza americana (e non solo) quella emessa all’unanimità il 25 giugno (n. 573-2014) dalla Corte Suprema in materia di
privacy digitale.Davanti ai 9 giudici c’erano due ricorsi su processi a cittadini arrestati, il cui telefonino era stato subito analizzato, permettendo dai dati ricavati di aggravare le imputazioni nei loro confronti. Il verdetto è stato netto: le forze dell’ordine non possono ispezionare «le informazioni» presenti nel cellulare se non con un esplicito mandato giudiziario, a meno di pericolo palese e straordinario. E ciò perché apparecchi come quelli attuali sono ben più che semplici telefoni, bensì «raccolgono diversi tipi di informazione, capaci di rivelare molteplici elementi sull’individuo rispetto a qualsiasi altra singola forma di archiviazione».Questo fa sì che in gioco vi sia una forma sostanziale di diritto alla tutela del proprio spazio personale, quella appunto che esclude «intromissioni irragionevoli» in base alla Costituzione. Prese le motivazioni alla lettera, i supremi giudici non scoprono nulla di sorprendente, nemmeno quando affermano che un ipotetico visitatore proveniente da Marte potrebbe pensare che gli smartphone costituiscano una sorta di protesi del nostro corpo. Sono strumenti multi-funzione che assommano intorno a un processore digitale una miriade di strumenti: registratore audio-video, creatore e raccoglitore di contenuti, strumento per comunicare e navigare nel Web nonché per accedere a servizi di ogni tipo attraverso le cosiddette «app», compresi quelli politici, sentimentali, sanitari o psicologici, cioè i più legati alla sfera privata e intima.Ma la possibilità di ospitare una quantità pressoché infinita di dati circa le proprie attività (lavorative, ordinarie, ludiche) e relazioni (amicali, familiari, formali) per un periodo lungo a piacere ne fanno un’integrazione della nostra memoria su cui facciamo costante affidamento, anche per incrementare le nostre prestazioni sociali. Infatti, la maggior parte degli utilizzatori riferisce di tenere il proprio cellulare a non più di 1,5 metri di distanza da sé per tutta la giornata. Ma ciò che la Corte Suprema implicitamente sancisce con la sua autorità, oltre a stabilirne uno speciale status in relazione alla
privacy, è che lo smartphone in qualche modo fa parte di noi. È una frazione della nostra mente distribuita nel mondo, direbbero alcuni filosofi e scienziati cognitivi.Ecco la suggestiva saldatura, non irrilevante a livello pratico, tra la sentenza e alcune tendenze culturali. Se la conoscenza è in larga parte depositata su supporti da noi creati, anche l’approccio internista – secondo il quale tutto ha origine e si svolge nel nostro cervello e di cui sono alfieri le neuroscienze – viene rimesso parzialmente in discussione. Il «modello della mente estesa» si muove in questa direzione, quando sostiene che i fenomeni mentali non sono confinati all’interno del sistema nervoso centrale e del corpo, ma talora elementi dell’ambiente esterno possono diventare veicoli attivi dei processi cognitivi e, dunque, tali veicoli esterni (il cellulare?) devono essere considerati parte della mente. In sostanza, diventiamo tutti
cyborg naturali, una mescolanza evolutiva di biologico e di artificiale.L’esempio dei primi proponenti della teoria, Andy Clark e David Chalmers (Michele Di Francesco in Italia), riguarda le vicende di due personaggi, Inga e Otto. La prima è una giovane sana e normale, che apprende di una mostra al museo d’arte moderna. Le sembra interessante e decide di visitarla. Pensando alla mostra, al museo e alla decisione di recarvisi, le sovviene che il museo si trova nella piazza del municipio e quindi là si dirige. Otto, invece, è un anziano malato di Alzheimer, che non può affidarsi alla propria memoria e deve quindi fare affidamento sulle informazioni ambientali. Nello specifico, un quaderno di appunti in cui – sembra – cerca le informazioni nello stesso modo in cui Inga le cerca nella memoria. Quando Otto viene a sapere della mostra, consulta il quaderno, trova che il museo è nella piazza del municipio e là si reca. Se il quaderno svolge lo stesso ruolo della memoria semantica interna, cosa controversa, i due casi sono analoghi.Per paradosso, parafrasando quanto ha scritto il giudice Alito in un’integrazione della sentenza, si potrà perquisire senza mandato il povero Otto e leggere tutto quanto ha vergato sul suo taccuino, ma non sarà lecito aprire il telefono di un alzheimeriano più tecnologico né ovviamente leggere i pensieri di Inga, anche se una futuristica macchina ce lo permettesse. Tutto questo ci dice che oltre alla
privacy legata allo strumento andranno difesi gli strumenti in quanto tali, da hacker, sabotaggi, danni... Perché sono «parte di noi» e non vorremmo che fossero sottoposti a malfunzionamenti più di quanto vogliamo che lo siano una gamba o, peggio, le nostre capacità mentali. In futuro, una sentenza conseguente potrebbe punire un furto o un danneggiamento a un cellulare di nuova generazione come una vera lesione personale...