Agorà

Il caso. Duffy's cut. La strage nascosta degli irlandesi

Riccardo Michelucci mercoledì 24 agosto 2016
Ci sono vicende sepolte in un passato lontano e cancellate dalla storia che a volte possono riemergere dall’oblio come un fiume carsico, e diventare un tragico monito per il presente. Quasi due secoli fa, lungo un anonimo tratto della ferrovia statunitense che porta a Filadelfia, si consumò uno degli episodi più terribili e misteriosi dell’emigrazione irlandese cattolica negli Stati Uniti. Gran parte dei pendolari che ancora oggi partono tutte le mattine dalla stazione della piccola cittadina di Malvern – poco meno di tremila anime – sui treni diretti nella vicina capitale della Pennsylvania ignorano che lì vicino una grande targa ricorda i 57 immigrati irlandesi che morirono per posare quelle rotaie. Ma neanche la storia raccontata da quell’insegna nera potrebbe aiutarli a comprendere fino in fondo il dramma che si consumò in quel luogo nell’agosto del 1832. La targa, posta in mezzo agli alberi appena una decina d’anni fa, si limita infatti a spiegare che quei lavoratori morirono a causa di un’epidemia di colera e delle cure che furono negate loro a causa dei pregiudizi contro i cattolici irlandesi. Non c’è niente di meglio di una tragica fatalità, nella forma salvifica e rassicurante di uno dei flagelli del XIX secolo, per rimuovere un dramma cancellato dalla memoria collettiva e lavare la coscienza di un’intera comunità.  Tutto ebbe inizio il 23 giugno di quell’anno, quando al porto di Filadelfia attraccò una nave proveniente dall’Irlanda. A bordo c’erano quasi duecento persone provenienti dalle contee irlandesi di Donegal, Derry e Tyrone. Uomini giovani, alcuni poco più che ventenni, e anche qualche donna, alla ricerca di una nuova vita lontana dalla miseria della madrepatria, si erano imbarcati affrontando un’estenuante traversata di due mesi. L’Irlanda era allora uno dei paesi più miserabili d’Europa, prostrato dalla fame e dalla povertà indotta dal dominio inglese. Erano infine sbarcati nella Terra Promessa e ad aspettarli, sulla banchina del porto, avevano trovato un impresario di nome Philip Duffy, irlandese pure lui. La potente Philadelphia & Columbia Railroad Company gli aveva appena affidato l’incarico di costruire il cosiddetto Mile 59, un tratto ferroviario che doveva collegare le città di Filadelfia e Columbia, in Pennsylvania, attraversando trenta miglia di aree boschive. Duffy aveva bisogno di manodopera per disboscare il terreno, trasportare e montare le pesanti traversine in ferro sulle quali sarebbero passati i treni nel tratto ferroviario che fu presto denominato Duffy’s Cut. Appena sei settimane dopo erano morti tutti, i loro nomi spariti da ogni registro storico americano, come se non fossero mai esistiti. Nessuno seppe più niente di loro. I giornali dell’epoca raccontarono che nell’area del cantiere era scoppiata un’epidemia di colera e la tesi fu confermata dalla compagnia ferroviaria, che in una lettera esprimeva solidarietà all’indirizzo di Duffy, per aver perso parte della sua manovalanza. Ma sulla sorte di quei lavoratori cominciarono a circolare dubbi e misteri destinati ad alimentare non poche leggende popolari. L’area fu recintata e resa inaccessibile, mentre in Irlanda una carestia di dimensioni apocalittiche avrebbe di lì a poco generato una nuova, gigantesca ondata migratoria verso gli Stati Uniti. Nel 1909 un funzionario delle ferrovie fu incaricato di indagare su quei fatti ma gli esiti della sua indagine non furono mai resi pubblici.  La tragica verità sulla fine degli operai irlandesi sarebbe emersa soltanto un secolo più tardi, in tempi recenti, dopo la definitiva chiusura della società costruttrice della linea ferroviaria. Alcuni anni fa due fratelli del posto, Bill e Frank Watson, nipoti dell’assistente dell’ultimo direttore della compagnia, scovarono tra le carte del nonno appena defunto un documento che l’uomo aveva conservato con cura dopo il fallimento della società, avvenuto nel 1970. Sul frontespizio c’era scritto «da non far uscire mai dagli uffici»; all’interno si affermava che nel Duffy’s Cut erano morti ben 57 lavoratori e si indicava il luogo dov’erano stati sepolti. I ritagli di gior- nale dell’epoca allegati al documento parlavano invece di appena otto morti, sebbene in quegli anni le informazioni relative alle morti per colera fossero di solito estremamente accurate proprio per evitare i contagi. I due fratelli Watson – il primo uno storico, il secondo un ministro luterano – si insospettirono e, convinti che il colera raccontasse soltanto una parte di verità, si misero a indagare. Chiesero e ottennero l’autorizzazione dalla Amtrak, la compagnia nazionale ferroviaria degli Stati Uniti, e nel 2005, grazie ai fondi raccolti dalla locale Università dell’Immacolata e da un’associazione vicina alla cattedrale di San Patrizio di Dublino, iniziarono gli scavi utilizzando radar e tecniche all’avanguardia. Il ritrovamento di alcuni oggetti personali – frammenti di pipe, posate, bottoni – fu il preludio della scoperta dei primi resti di ossa umane, e le successive analisi forensi compiute sui teschi e sulle tibie rivelarono finalmente la tragica verità. Su alcuni teschi c’era il foro di un proiettile, altri recavano evidenti segni di fratture causate da asce e da oggetti appuntiti. Quei lavoratori non erano morti a causa della malattia: erano stati massacrati. All’epoca gli immigrati irlandesi cattolici erano oggetto di un odio feroce e irrazionale, erano discriminati e sfruttati come bestie. Se ritenuti pericolosi, venivano eliminati senza pietà. L’epidemia di colera era scoppiata nell’area prima del loro arrivo, ma furono considerati responsabili di averla portata dall’Irlanda e quindi brutalizzati, uccisi e gettati in una fossa comune per paura della diffusione del contagio. Negli ultimi tre anni, studiando il Dna dei resti umani rinvenuti, è stato perlomeno possibile dare un nome a tutte le vittime, le cui spoglie hanno ottenuto degna sepoltura intorno a un’enorme croce celtica nel cimitero di West Laurel Hill, in Pennsylvania. La forte ondata emotiva e il cupo dolore evocati dalla vicenda che suona come una tragica lezione anche per il presente hanno colpito profondamente le coscienze degli irlandesi. Il cantante Christy Moore ha dedicato a questa storia un brano struggente intitolato semplicemente Duffy’s Cutmentre lo scrittore Paul Lynch, uno degli emergenti oggi più quotati d’Irlanda, ha incentrato proprio su quella tragica vicenda il suo straordinario romanzo d’esordio Red sky in morning, che nel 2017 uscirà anche in traduzione italiana.