Reggio Emilia. Quando Dubuffet riponeva nella materia l'ultima speranza
Una stanza della mostra dedicata a Dubuffet, in primo piano: “Il cosmorama IV” (1970)
All’epoca dei miei anni universitari, mentre preparavo uno studio su Edoardo Persico, il geniale critico di origini napoletane morto prematuramente nel 1936, e avevo come “tutor” una docente di arte contemporanea moglie di un noto cattedratico bolognese, mi capitò di notare nella loro casa stipata di libri e opere d’arte un po’ ovunque (anche in bagno) una cosa che, giovane di belle speranze affascinato dall’aria internazionale che si respirava in quelle stanze, mi parve se non bizzarra certo incredibile: da sotto un letto spuntava l’angolo di una tela il cui stile mi parve inequivocabile e mi uscì una domanda di cui poi provai imbarazzo: «Ma quello è un Dubuffet!?». La risposta fu che il professore lo conosceva da molto tempo, lo era andato a incontrare negli anni Sessanta a Parigi, e ne era diventato un fervente sostenitore in Italia, tanto che fra acquisti e doni ne aveva raccolti un certo numero e non c’era più altro posto dove tenerli. Ma negli anni Ottanta, quando ebbi quella singolare esperienza, Dubuffet, la sua vena primitivista, brutale, informale (ma ancora “figurativa”) univa ancora al senso per le materie scabre, per le forme arcaiche, per il graffitismo preistorico un sentimento esistenziale che lo aveva spinto precocemente a prestare attenzione all’arte dei folli. Qui si entra nell’annosa questione se quella dei pazzi o borderline, chi soffre di forti disturbi mentali cronici, sia arte o, come la definì lo stesso Dubuffet, Art Brut.
L’artista, che da giovane produceva e vendeva vini, si era interessato molto presto, già nei primi anni Venti, al lavoro degli alienati. Fu dopo aver letto i saggi dello psichiatra e storico dell’arte tedesco Hans Prinzhorn, che nel 1922 aveva pubblicato L’attività plastica dei malati di mente con molte immagini come documentazione. Si farebbe tuttavia una indebita sovrapposizione considerando arte, nel senso in cui la intendiamo normalmente, tanto l’opera dei malati mentali quanto quella dei comuni artisti. Certamente si tratta di una forma di espressione, ma quella dei folli è più l’epifenomeno della loro malattia che un prodotto “simbolico” (sia pure non inteso come rappresentazione di concetti, o elaborazione filosofica per immagine). Prinzhorn raccolse molte di queste opere e qualche anno dopo la sua morte prematura nel 1933 i nazisti prelevarono alcuni esempi di quella “collezione” per inserirli, nel 1937, nella mostra Entartete Kunst al fine di screditare gli artisti moderni. Fu dunque Prinzhorn il primo a comporre un catalogo di opere dell’Art Brut, che Dubuffet promuoverà, donando poi a Losanna la sua collezione per farne un museo.
L’equiparazione secondo presunte analogie di valore oggi è consueta in molti perché l’estetica del brutto, come scrisse già a metà Ottocento il filosofo hegeliano Karl Rosenkranz, ponendo la questione di un allargamento della nostra esperienza dell’arte non più solamente regno del bello quale espressione dell’idea e dello spirito, ma anche dell’asimmetria, dell’informe e del deforme, della perdita di definizione figurativa, cui oggi potremmo aggiungere le manifestazioni del pop-kitsch che sono la lingua estetica del nostro tempo, fa parte ormai da oltre un secolo della concezione che abbiamo dell’arte (dove la bellezza è sempre più “sfigurata”). A Reggio Emilia, Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger hanno allestito a Palazzo Magnani (fino al 3 marzo) una mostra di Jean Dubuffet nel cui titolo sembra replicarsi una contraddizione datata: “Materia e spirito”. Da tempo siamo consapevoli che materia per noi non è più una realtà senza forma, gli studi della fisica e della biologia hanno mostrato quanto essa sia organizzata anche se a lungo l’abbiamo definita, per un eccesso di idealismo, “bruta”. Ma il brut di cui si serve Dubuffet per le opere dei suoi matti prediletti non significa in realtà qualcosa di vile, privo di sostanza, bensì qualcosa che lascia trasparire nella propria viltà, nella propria istintualità, un barlume di permanenza cosciente, di spiritualità.
Se l’anima razionale era ciò che distingueva, secondo gli antichi e Aristotele in particolare, l’uomo dall’animale, conferendogli una superiorità sul resto del creato, oggi potremmo tranquillamente equiparare un alienato all’anima irrazionale di un cane o di uno scimpanzé, nonostante le nuove teorie sui sentimenti e sull’intelligenza animale? Mi sarebbe piaciuto incontrare in questa mostra un passo diverso. Già nel 2015 a Padova era stata dedicata una corposa rassegna ai “Phénomènes” che Dubuffet realizzò dalla fine degli anni Cinquanta con una serie di esperimenti litografici che a suo modo rievocavano, come spiega nel catalogo (Skira) Adolfo Tura, il noto pensiero di Leonardo a proposito delle macchie di umidità sui muri che la mente umana talvolta “riconosce” quali tracce di forme reali e intenzionali, o, come direbbe Dubuffet, “impronte” di un assente. Evitando di cascare nel ridicolo, Dubuffet non fu mai così semplice da considerare certe azioni pittoriche come produttrici di valore estetico, ovvero una diretta corrispondenza – come sottolinea Tura – fra accidentalità e valore. Ma è proprio questo punto che Roger Caillois aveva ben chiarito quando scrisse che «è ingenuo supporre che basti un gesto imponderato, un’assenza di controllo, per suscitarne un equivalente ». L’informe è pur sempre ciò che emerge da un ordine, una rappresentazione cosciente di entropia.
Per questo il fatto che la mostra di Reggio Emilia, che ha anche intenzioni didattiche e scolastiche, cominci con la solita campionatura di opere Art Brut come introduzione al discorso di Dubuffet, mi pare un’occasione perduta dal punto di vista scientifico, se non altro perché di mostre su Dubuffet non se ne fanno ogni anno tante quante quelle degli impressionisti, di Picasso, di Matisse, degli espressionisti astratti americani, di Wahrol o Basquiat (anche per un diverso appeal di mercato). Per una volta mi sarebbe piaciuto che si indagasse di più sugli inizi, sulla ossessione di Dubuffet per le maschere, sulla corrispondenza fra forma materica e scultura, s
ulla disperata volontà di salvare l’archetipo pur dentro un collasso, un conatus, un bisogno di esprimere, nel momento di massima brutalità (quello della Seconda guerra modiale), non il correlativo oggettivo del caos, ma il descensus ad inferos da cui poi risalire con qualcosa di stabile e al tempo stesso poetico: la vitalità dell’informe, la costruttività simbolica dell’impronta, l’essenziale strutturalità del volto che, appunto, pesca dalle più antiche tradizioni della maschera: Grecia, Asia, Africa, Oceania. Il grado zero di questa ossessione sono opere come Ragioni complesse del 1952 e Nobile portamento di testa del 1954 che forse hanno anche un antecedente, il primitivismo antigrazioso di Carrà. Tra i due corre una sorta di analoga tempistica: entrambi (cui andrebbe aggiunto Fautrier) mettono in scena un volto umano che testimonia il turbamento dopo la terribilità bellica. L’esito è una maschera ridotta alla brutalità di una forma che non ha più un evidente richiamo alla “fisiognomica” umana, ma nondimeno ne è la sfigurata reliquia.
Se ciò che un alienato farebbe solo come imitazione del terrore che si sprigiona attorno a lui, Dubuffet e ogni altro artista cosciente fanno invece per rendere alla realtà uno specchio simbolico (una forma artistica dello speculum humanae salvationis). Nessun folle potrebbe eseguire un capolavoro come Terra arancione con tre uomini del 1953, dove ogni segno, incisione, graffio, rigurgito materico risponde a un intento simbolico (qui, lo spirito della materia, e la materia dello spirito emergono con misurata grandezza). Dopo aver lavorato per circa due decenni sull’informe e i suoi recessi “archetipali”, come li definì Gaëtan Picon nel 1973 (vale a dire, formali e figurativi in senso lato, vedi per esempio le due figure umanoidi di Deambulazione del 1961), nell’opera di Dubuffet comincia ad affacciarsi un elemento costruttivo di sagome informali che si incastrano l’una nell’altra componendo nuove figure, giganti della forma ( Sitimini, 1962), che poco alla volta producono esseri pantagruelici, ammassi di forme che ricordano le “compressioni”di César. Disegno, scultura, architettura si compongono di modules découpès per circa un decennio nel ciclo dell’Houloupe, neologismo che per Dubuffet definisce un “teatro totale”. Forme spazializzate che costruiscono sfondi, scenografie, sculture architetture, come il giocoso Cosmorama del 1970, e convergono a realizzare Coucou Bazar nel 1972. Alla fine di quel decennio che ne ha fatto un mito internazionale, Dubuffet si spinge oltre e nei primi anni Ottanta (muore nell’85), approda a una ulteriore sottrazione di elementi figurativi. Ma è in quel momento che sembra chiedersi se non sia andato troppo oltre e in Quadro nero del 1984 pare affacciarsi dentro di lui la domanda sulla fine, la fine di tutto, anche dell’arte come terapia umana che corteggia più che allontanare la morte.