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Musica. Kit Downes: «Con l’organo il jazz diventa meraviglioso»

Andrea Pedrinelli mercoledì 16 maggio 2018

Kit Downes, in uscita con il nuovo album “Obsidian” (Alex Bonney/Ecm)

«Oggi lo si usa solo in certa musica contemporanea e per qualche improvvisazione. Eppure, pur sembrando legato al passato è uno strumento speciale e dal terreno ben più fertile di quello di altri strumenti: specie per le sue ricche potenzialità sonore che rendono possibile miscelarlo con timbri di vario genere, dalla voce a percussioni e persino elettronica ». A parlare è Kit Downes, jazzista di Norwich classe ’86, considerato punta di diamante della scena jazz contemporanea (non solo inglese); e il soggetto del suo entusiasmo è il caro vecchio organo da chiesa (lui ex organista di chiesa passato al piano jazz perché folgorato da Oscar Peterson), strumento storico da tempo sin troppo confinato a musica sacra e/o antica. Vero è che l’organo da chiesa non è trasportabile; e che l’invenzione dell’organo elettrico (Hammond in primis) l’ha sostituito nella musica moderna portando eco dei suoi suoni sino alle hit parade tramite Keith Emerson, Billy Preston, Yes, Deep Purple, Procol Harum. E solo ciò, in fondo, fa sì che a volte ci si ricordi anche oggi pure dei suoni originali (diversi però, e con spettri più ampi) dell’organo a canne che attende fra chiese e cattedrali.

Stando in Italia, i giovani Carlot-ta e Pop X e l’esperta Antonella Ruggiero hanno di recente proposto dischi e brani puntando proprio alla magia dimenticata dell’organo: però anche nel jazz ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Jimmy Smith “l’incredibile” divenne celeberrimo nel globo perché suonava l’organo in chiave blues/jazz; e ormai bisogna guardare molto indietro per trovare jazzisti rivoltisi all’organo quale punto di partenza, gente come Richard Holmes, Jimmy McGriff, Rhoda Scott o quel Charles Thompson che Lester Young elogiò battezzandolo Sir Charles. E comunque tutti loro, come Fats Waller, Count Basie o Joe Zawinul, suonavano organi elettrici. Insomma è con Kit Downes e il suo magnifico album Obsidian, inciso per ECM sul grande organo dell’Union Chapel di Londra datato 1877, sul più piccolo organo di St John’s nel Suffolk e sull’ancora più piccolo strumento della St. Edmund’s Church di Bromeswell, è con Downes che l’organo a canne arriva finalmente, ora, ai riflettori del jazz moderno. Fra brani tradizionali ( Black is the colour) e originali di splendido jazz (fra cui Modern Gods, duo organosax), reinterpretazioni e improvvisazioni pure, incisioni in presa diretta e sovrapposizioni di più parti ottenute suonando gli stessi spartiti in modo differente, Downes col suo cd crea, come ci dice, «un linguaggio nuovo per uno strumento dimenticato »: e l’organo si svela «strumen- to sempre moderno, capace di espandere le possibilità di un pianista facendolo pure sentire più libero».

Che cosa comporta esattamente far musica su un organo a canne e non su pianoforti o tastiere elettriche?

«Che non solo si hanno a disposizione tutti i diversi suoni di un’orchestra, replicati dalle canne stesse, ma pure la sua architettura sonora: a volte suoni due note e la musica esce trenta piedi alla tua sinistra, poi la nota successiva esce trenta piedi a destra… Le dirò addirittura che se si è di mente aperta, sono gli organi lasciati andare in rovina a dare maggiori opportunità di nuovi suoni e nuove idee».

Ha seguito in qualche modo la lezione di Olivier Messiaen, che lavorò per tutta la vita attraverso l’improvvisazione?

«Amo come miscelò i suoni dello strumento per dare forma concreta alle performance e colorarle: perché il fatto è proprio questo, con l’organo sei sia un interprete- improvvisatore che un orchestratore».

Che difficoltà ha comportato fare un disco passando da un grande organo a tre tastiere a un organo piccolo con una sola tastiera?

«È difficile avvicinare con un disco il suono del grande organo dell’Union Chapel: coi più piccoli catturi anche i fruscii, i loro suoni reali e unici».

Lei propone il disco in tour, ma quanto cambia il suo progetto fuori da ambiente e acustica delle chiese?

«La sfida diventa adattare la musica al nuovo spazio e ovviamente anche allo strumento che vi trovo. Però ho composto spartiti aperti proprio per tenere il progetto vivo e capace di reinventarsi di continuo».

Ora andrà in tour anche col sax, già ospite nel cd, e con una chitarra: lì cambierà la sua ricerca?

«Voglio proprio farci un disco, col norvegese Stian Westerhus; incideremo a giugno, penso che la sua chitarra si abbini bene all’organo e al sax di Tom Challenger. Sarà un progetto diverso, più ampio per suoni e colori, meno attento ai minuscoli dettagli».

L’organo è uno strumento spirituale, a suo avviso?

«Per natura sì, è profondamente radicato in ciò che possiamo chiamare musica spirituale. Io ci suono musica che ha la stessa natura di quella che faccio abitualmente: esprimendo però sfumature che non possono prescindere proprio dallo strumento in sé, da come io lo vivo e dallo spazio in cui si trova».

Il futuro del jazz, o della musica contemporanea in sé, è dunque anche nell’organo?

«C’è così tanta musica che mi sorprende di continuo che non vorrei tirare a indovinare sul futuro… Certo, l’organo ha tali potenzialità anche tecniche che a volte, creda, sembra una tastiera elettronica!».