Ufficiale insofferente alla disciplina, esploratore, eremita, sacerdote, apostolo dei tuareg, martire dell’Eucaristia: la vita di padre Charles de Foucauld è talmente straordinaria che ogni tanto ci si domanda come mai uno scrittore non l’abbia ancora trasformata in romanzo. Poi ci si informa meglio e si scopre che, in effetti, un libro del genere esiste, si intitola
El olvido de sí ('L’oblio di sé') e lo ha pubblicato nel 2013 un autore che, a sua volta, di vivacità esistenziale se ne intende. Si tratta di
Pablo d’Ors, classe 1963, nipote del leggendario critico d’arte catalano Eugenio d’Ors, narratore per vocazione precocissima, sacerdote a Madrid e già conosciuto nel nostro Paese per un paio di libri di consapevole costruzione letteraria:
Avventure dello stampatore Zollinger, edito da Quodlibet nel 2010, e
Il debutto, apparso nel 2012 presso Aìsara. Atteso a Milano per la kermesse di BookCity, d’Ors presenta ora in Italia quello che, al momento, è forse il suo libro più importante.
Biografia del silenzio (molto ben tradotto da Danilo Manera per l’editrice Vita e Pensiero, pagine 100, euro 12) è un best seller in Spagna, dove è stato accolto come volume conclusivo della trilogia comprendente
El amigo del desierto (2009) e il già ricordato
El olvido de sí. L’elemento comune è rappresentato proprio dall’esperienza del silenzio, che d’Ors ha scoperto in anni relativamente recenti attraverso la pratica della meditazione. Come sia accaduto, e con quali esiti, è raccontato appunto in
Biografia del silenzio, libro indefinibile e affascinante. Un saggio non è, e neppure un resoconto autobiografico in senso stretto. È, almeno in parte, una riflessione sulla letteratura, ma anche costituisce un invito ad andare oltre la letteratura. D’Ors ammette di essersi deciso a meditare invogliato dall’assoluta semplicità del metodo («sedersi, respirare, zittire i pensieri…») e, insieme, incalzato dall’inquietudine per la sua affermazione come scrittore. Da una seduta all’altra, passando attraverso le fasi ricorrenti della distrazione e della delusione, è giunto alla convinzione che «in letteratura, come in tutto il resto, avrò successo nella misura corrispondente ai miei meriti». Non è una resa, anche se annota d’Ors - 'la meditazione è l’arte della resa'. A che cosa, però? Al supremo principio di unità di cui la realtà stessa rende testimonianza. C’è, in questo, l’eco tutt’altro che dissimulata delle discipline orientali, alle quali d’Ors si richiama spesso, per esempio invitando ad approfondire l’autentico significato del
gassho, la riverenza a mani giunte tipiche della tradizione buddhista (è, ancora una volta, un omaggio alla realtà nella sua sostanza più misteriosa). Ma c’è anche il recupero in forma originale - per quanto mediato dalla lezione del teologo benedettino Elmar Sallman della figura del 'maestro interiore' di ascendenza agostiniana. L’intero percorso, in effetti, procede su un duplice binario: quella al silenzio è una chiamata supremamente 'impersonale', perché rivolta a ogni essere umano, ma nello stesso tempo è l’unica strada che dà accesso alla realtà personale di ciascuno. Una rinuncia che si trasforma in conquista e che permette, tra l’altro, di disfarsi di molti ingombranti luoghi comuni. Non solo d’Ors invita a diffidare della retorica dei sogni (troppo spesso, avverte, assemblati con materiali di seconda mano), ma è anche molto critico verso l’ideologia dell’altruismo a oltranza. Solo attraverso l’attenzione raccomandata già da Simone Weil, infatti, e cioè solo attraverso la pura percezione del reale, è davvero possibile prendersi cura degli altri. Del resto, accade così anche in letteratura: «La virtù dello scrittore - ammette d’Ors risiede unicamente nell’essere lì mentre il libro si scrive».