La mostra a Verona. Dorazio, trame di colore come architetture
Piero Dorazio, “Balance and counterbalance”, 1965
Scienza cromatica e gesto, tocco e segno che dissestano la geometria (ma non la regola) e rigenerano la memoria dell’arte, in una continuità di ricerca da “Forma 1” in poi, hanno sostanziato prima il lucido richiamo al senso delle avanguardie storiche, poi la vera e propria difesa dell’identità della pittura moderna e della sua autonomia. Parliamo dell’opera di Piero Dorazio (l’«architetto della cromia» secondo la definizione di Marcello Venturoli) la cui pittura va per cicli. Il naturalismo pittorico iniziale della fine degli anni Quaranta del secolo scorso – contrappuntato da opere neoplastiche monocromatiche e rilievi in legno dipinto e plexiglas – via via si frantuma sino quasi alla perdita dell’immagine per diventare, nel 1948, vero astrattismo: colore su colore, gradualità su registri azzurri, verdi, gialli, viola, linee in negativo. Nel 1953, in quello stesso clima in cui nascono i “buchi” di Fontana, le formulazioni di Dorazio spaziano da un rigoroso geometrismo a forme libere e immaginifiche fino a diventare trame e segnare uno dei periodi più pregnanti della carriera dell’artista. Le prime di queste risalgono al 1959. Sono in carboncino su carta dove è più immediato fissare un’idea, perentorie, nerissime su bianco, ma è il colore a prendere il sopravvento e, a partire dal 1963, la struttura reticolare delle trame cede il passo a un nuovo impianto compositivo orchestrato di volta in volta su registri lineari, su campiture a puzzle, su fiammate di colore, sul frammento, sulle compenetrazioni appuntite, sui ritmi ripetuti di segni sinuosi, su fasce che si intersecano. Inizia da qui, per indagare il successivo quinquennio, questa mostra veronese curata da Francesco Tedeschi che, grazie a una trentina di selezionatissime opere, si focalizza su quella che è stata definita la “nuova pittura” di Dorazio. È distribuita tra la Galleria d’Arte Moderna Achille Forti e la Galleria dello Scudo da dove parte il percorso espositivo con Passato e presente, olio su tela del 1963, in cui l’intreccio del segno è superato dalla stesura di fasce policrome a fitta sequenza verticale. E se ancora la struttura reticolare, costituita da lunghe linee sottili, permane in opere come My best (1964) e Percorso male inteso (1965), è evidente come in queste tele si assista a un diradarsi e a un disciplinarsi della trama e all’affiorare di una griglia regolare sovrimpressa ai tracciati diagonali. È ciò che testimoniano due opere entrambe del 1966 che rappresentano due omaggi ad artisti verso i quali Dorazio ha manifestato particolare interesse. Si tratta di Tranart (a Gino Severini) e Ottimismo-pessimismo (a Giacomo Balla) opere che, se da una parte risentono di suggestioni provenienti dalla pittura americana in auge in quegli anni con la quale Dorazio entra in contatto in seguito alla sua permanenza negli Usa dove la sua opera registra prestigiosi riscontri, dall’altra segnalano come la sua ricerca sia il frutto di profondi legami con la storia dell’arte nazionale. Alla Galleria Forti sono due grandi tele ad accogliere il visitatore, entrambe presentate (insieme ad altre che figurano in questa mostra "La nuova pittura. Opere 1963-1968", fino al 30 aprile) nella sala personale dell’artista alla XXXIII edizione della Biennale di Venezia del 1966: Cercando la Magliana del 1964 e Balance and counterbalance del 1965, opere che segnalano una vocazione architettonica che porta a nuove invenzioni compositive e a una rottura dell’ordine. Ciò per ottenere un equilibrio dinamico e al contempo a rifuggire da ogni irrigidimento, come dimostra l’utilizzo della linea curva e la sua fluidità in opere quali Endless Federico (I) (per Federico Kiesler) del 1965, Tira e molla, del 1966 e Litania, del 1968. © RIPRODUZIONE RISERVATA Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti e Galleria dello Scudo Piero Dorazio