Agorà

Doping. Nuovo scandalo Russia: sotto accusa oltre mille atleti

Lorenzo Longhi venerdì 9 dicembre 2016

Se c’è qualcosa che non si può imputare a Richard McLaren, l’estensore del rapporto Wada che sta travolgendo lo sport, è la mancanza di familiarità con l’ars retorica: «cospirazione istituzionale», è la locuzione utilizzata ieri a Londra, quando l’avvocato canadese ha dettagliato il secondo rapporto sull’indagine indipendente della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, secondo cui 1.115 atleti russi, di trenta discipline diverse, sono stati oggetto di controlli antidoping i cui valori positivi sarebbero stati insabbiati a vari livelli delle istituzioni sportive dal 2011 al 2015. Già lo scorso luglio, anticipando gli esiti dell’inchiesta, McLaren aveva parlato espressamente di «doping di Stato», riportando le lancette del tempo ai «mezzi di sostegno», così come venivano chiamati allora, utilizzati dai vertici sportivi della allora Germania Est sugli atleti impegnati alle Olimpiadi. Ciò che esce dal secondo rapporto McLaren, però, è ancora più grave, perché più sofisticato e straordinariamente capace di contare su una fitta ed inestricabile rete di complicità e appoggi. «Le coperture sono cominciate almeno dal 2011 e sono proseguite anche dopo Sochi, evolvendosi in modo sempre più organizzato» e ancora «il comitato olimpico russo ha corrotto i Giochi di Londra 2012 con una rete di coperture senza precedenti» la cui «fotografia è chiara, ma non completa perché le prove che abbiamo solo una parte di quelle che potremmo avere». Sembra ormai l’ora di rendersi conto di avere assistito, negli ultimi anni, a una pletora di manifestazione i cui esiti, letteralmente, sono stati dopati da «un sistema che permetteva agli atleti russi di competere regolarmente nonostante il doping».

Le 151 pagine del rapporto raccontano di come oltre 500 test segnalati come negativi fossero invece positivi, disegnano scenari che sarebbero ridicoli se non fossero sportivamente drammatici (presenze di sale mescolate alle urine «incompatibili con un organismo umano», presenze di dna maschile nei test di due hockeyste donne, passaggio di provette attraverso buchi nei muri) e non confermassero la grande truffa orchestrata dal comitato olimpico russo negli ultimi anni. Coinvolte anche stelle di prima grandezza - ma non è compito dell’inchiesta rivelare i nomi: toccherà alle federazioni - e medagliati olimpici (cinque a Londra, quattro a Sochi), ma il sistema di doping e copertura andava oltre i Giochi, coinvolgeva le Paralimpiadi e si ramificava in numerose altre manifestazioni internazionali, diffuso in diversi sport. Fra i quali pure il calcio, e anche questo, del rapporto McLaren, fa rumore, perché la Russia nel 2018 ospiterà i Mondiali.


Il presidente del Cio Bach ha detto che «intende andare più in là di quanto fatto da McLaren» e propone, qualora venisse provata la truffa, la squalifica a vita per tutte le figure coinvolte. Un tentativo di salvare la faccia per studiare le carte ed eventualmente prendere provvedimenti davvero drastici, perché inevitabilmente un rapporto come quello di McLaren e dei suoi uomini lascia intravedere anche una sorta di guerra tra le istituzioni. Dopo tutto, in previsione degli ultimi Giochi di Rio il Cio aveva votato contro l’estromissione globale della Russia e, nonostante la delegazione fosse stata decimata dalle scelte di ammissione o esclusione operate dalle arie federazioni (e in totale gli atleti presenti furono 271 a fronte dei 389 previsti), il comitato olimpico internazionale non volle accollarsi la responsabilità di una decisione storica. La Russia anche attraverso Vitali Mutko - ministro dello sport prima dello scandalo e ora addirittura vice di Putin, ma sempre con delega allo sport - continua a parlare apertamente di complotto, ma la tesi oggi sembra ancora più insostenibile di quanto già non fosse a luglio. Ma in fondo, a fronte di una rete di complicità di tale portata, non ci si può più stupire di nulla.