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STILI DI VITA. Donna, non darti la zeppa sui piedi

Rossana Sisti giovedì 13 gennaio 2011
Le scarpe delle donne sono eloquenti. Quanta strada si può fare con quei tacchi vertiginosi, le zeppe e i plateau dallo spessore pazzesco che dalle passerelle si sono trasferiti alle vetrine e chissà come ai piedi delle donne comuni? Quanta strada si può fare così incredibilmente zavorrate, su trampoli vistosi mai sotto i dodici centimetri, quante corse ci si può permettere tra casa e ufficio, supermercato e asilo nido? Le scarpe dal gusto retrò tanto esasperato offrono una chiave di lettura interessante: apparentemente trasgressive, anticonformiste e provocatorie sono in realtà il segno di una retromarcia clamorosa per le donne. Un freno a non fare passi falsi, lo strumento furbetto di un ritorno a casa. Del resto gli anni Cinquanta riproposti prepotentemente dagli stilisti per inaugurare il secondo decennio del secolo parlano proprio di questo: mai visti tanti corsetti, guepierre e pancere nella biancheria intima. Le guaine pesanti e contenitive, tanto care a nonne e bisnonne, che il femminismo aveva buttato alle ortiche. E che prima Madonna e oggi Lady Gaga sono tornate a sfoggiare come corazze di una femminilità in gioco tra liberazione e sudditanza. I corsetti strizzano la vita, esaltano i fianchi e si mangiano mezza taglia: comprimono, costringono, pressano ciò che un tempo si è cercato di liberare da ogni formalismo o peggio si è nascosto dentro abiti dai tagli maschili che promettevano un’ascesa femminile rimasta però incompiuta. «Dal punto di vista simbolico la moda oggi conferma che le libertà che arrivavano dal mondo delle donne non si sono coniugate con l’acquisizione di ruoli di autorevolezza e in ambiti effettivi di potere. Siamo alla riproposizione di vecchie storie e vecchi modelli. I tacchi iperbolici, che certo non agevolano il lavoro delle donne, l’esaltazione delle rotondità, le guaine e la ricomparsa del reggicalze sono segnali di una pesante restaurazione dell’identità femminile legata all’immagine del corpo. Proprio là dove si sospettano la trasgressione e l’innovazione riemergono ruoli da pin up o da burlesque». La moda e il vestire come punto di osservazione del continuo giocoso rimescolarsi delle identità di genere è pane quotidiano per Alessandra Castellani, antropologa, studiosa di culture giovanili e docente al corso di Fashion design dell’Accademia di belle arti di Frosinone, autrice di Vestire degenere. Moda e culture giovanili, appena pubblicato da Donzelli (212 pagine, 24 euro). Un saggio che percorre quella zona di confine spartiacque tra maschile e femminile, labile e ibrida, in cui a colpi di rimmel, rossetti, tagli di capelli, pizzi, pantaloni e gonnelline si esprimono molteplici possibilità di genere e molteplici identità. Si affrontano incursioni e invasioni di campo oltre ogni limite. Vestire degenere è un titolo ma ancor di più un programma. «De genere, come dicevano i latini - spiega Alessandra Castellani - nel senso di un abbigliamento che si allontana dal genere ascritto, biologico, dato per naturale. Ma degenere anche nel senso giocoso di degenerato, di qualcosa che non si comporta in maniera propria e travalica lo scontato. Rompe le righe e gli steccati». Sono queste le due direttive lungo le quali si snoda la ricerca, complessa e ipercircostanziata dell’antropologa che ricostruisce attorno alle identità maschile e femminile un arcipelago di trasformazioni e mascheramenti resi possibili attraverso il vestire da un certo punto della Storia in poi, dallo scompaginamento di regole e categorie. Lo snodo dirompente è quello degli anni Sessanta e delle prime mode giovanili che hanno dato un tratto graffiante  e irriverente alle possibilità espressive dell’abito. «Mods e hippies sono stati i primi a sbriciolare in modo prepotente i confini di genere, fino ad allora invalicabili e strutturati, e a sperimentare i molteplici personaggi che si possono interpretare, le diverse identità che si possono costruire al di là del dato biologico. Alimentando la grande illusione che il sesso si potesse sospendere, l’invenzione dell’unisex ha fatto dell’età, la giovinezza, il primo elemento di identificazione coesione sociale». Nella Londra degli anni Sessanta i giovani mods, nuovi dandies della classe operaia che si truccano pesantemente gli occhi con matita e mascara e sfoggiano capi dai colori accesi e dai canoni effemminati, non fanno che sovvertire le regole ferree della sobrietà maschile fatta di abiti dai colori cupi, austeri, adatti alla serietà del lavoro. «Così gli hippies. I ragazzi con i capelli lunghi e le ragazze con i pantaloni fanno cadere quegli steccati robusti che hanno separato i due sessi per cent’anni. Da metà dell’800, fino agli anni Sessanta - spiega Alessandra Castellani - la moda è rimasta stabile, definita secondo i criteri della produzione e del consumo. L’uomo vestito sobriamente, la donna a complemento esibita con sfarzo di corsetti, pizzi e crinoline come un trofeo a rappresentare l’opulenza del marito». Per un secolo i due territori restano distanti e separati, gli sconfinamenti considerati solo eccezionali ed elitari. Finché irrompono i giovani come nuova categoria sociale a ridefinire e sovvertire i confini del genere e le regole implicite,  a delineare i contorni di un’ambiguità sessuale stridente che è arrivata, declinata in mille forme, a oggi. Dai tacchi alti di David Bowie agli ancheggiamenti effemminati di Mick Jagger alle parrucche di Andy Warhol, dall’androginia glam degli Abba alle mascherate maschili di Annie Lennox o a quelle femminili di Boy George (che, truccatissimo, in modo scanzonato indossa la gonna), il catalogo delle forme di irriverenza nei territori dell’identità si è dilatato fino a comprendere le sigle più fantasiose, emo, butch, gothic lolite, drag queen, drag King. Come se tra i confini tradizionali dei generi si fosse delineata una terra di mezzo di sospensione delle identità in cui ciò che si dichiara con un abito nasconde, scambia o maschera il sesso di partenza. «All’interno di questi continui sconfinamenti - continua Alessandra Castellani - la moda ha oggi fortemente ridefinito il corpo delle donne. Come da una marea di flussi e riflussi sono riemersi modelli iperfemminili, roboanti, anni Cinquanta che ribaltano l’immagine dei corpi diafani, esausti ed esautorati alla Kate Moss in visioni iperbolicamente opposte. Siamo ripiombati nel mondo delle donne formose, di una rotondità seduttiva e frivoletta, influenzate dallo sguardo maschile. Donne che vivono la stagione breve della loro giovinezza, come complemento, talvolta come trofeo dell’uomo secondo i vecchi canoni borghesi». Né battagliere né ruvide, sono le eredi da un lato del modello sentimentale, infantile e indulgente verso se stesse alla Bridget Jones, ragazza che non vuole rischiare lo zitellaggio, dall’altro del modello maggiorate, che il sistema mediatico ha rilanciato e riproposto alla nausea. Procace, eccessivo, roboante, risultato anche chirurgico di quello che l’antropologa definisce «una rinaturalizzazione ossessiva del genere femminile», il corpo ipertrofico delle donne e gli abiti che lo vestono mettono in scena una disfatta tutta femminile. Quanta tristezza nelle tante Ruby con il sogno del Grande Fratello e nell’ambizione dell’escort, ultimo modello di ascesa sociale.