Eravamo saliti a Potenza, era il ’93 e si stava per assegnare a Rodolfo Doni il Premio Basilicata di narrativa per il libro
Dialogo con Lorenzo. Lo confesso: non amavo molto Doni, lo trovavo troppo avvolto in un cattolicesimo che mi pareva integralista e contemplante, e la retorica di certe pagine, come la conversione del protagonista di Muro
d’ombra durante un viaggio a Lourdes, a mio parere troppo facile e semplicistica. La sua immagine mi appariva invischiata nelle maglie della Democrazia Cristiana e di un sistema politico che avevamo avversato nei nostri anni di gioventù. Mi tornavano le parole di Mario Guidotti: «Doni non è un cattolico del dissenso». Sarebbe stata una brutta sera. Doni salì sul palco sciarpa al collo e affiorò sul suo volto un sorriso trattenuto, forzato, l’immagine di un uomo piccolo e nascosto dall’inseparabile berretto scozzese che quasi faticò a sfilarsi, chiuso in un silenzio e poi in una voce flebile venata di malinconia. Mi chiesi se non fosse pregiudizio bell’e buono il mio, se non fosse il caso di provare a capire se fosse vero quel che Guidotti aveva poi precisato: «Ma Doni non è neanche un cattolico chiuso entro schemi religiosi fissi, immutabili, dogmatici». Interrogato dal poeta e giornalista Mario Truffelli, che aveva l’atteggiamento maieutico dell’intervistatore coinvolto e provava sempre a inserire il discorso dell’autore nel contesto della sua narrativa e della letteratura cristiana del momento, Doni, il cui vero nome affiorava dalle biografie che ci erano state distribuite all’ingresso del teatro Due Torri ed era Rodolfo Turco (continuo lo sdoppiamento nella sua vita, tra la figura pubblica e quella privata) disse che si sentiva due anime, un inestricabile destino di doppia vita, una tutta proiettata verso la scrittura e il lavoro borghese, un’altra spirituale e religiosa. Questa seconda anima l’aveva sentita affiorare nel ’43, durante un ricovero in ospedale militare descritto poi nei racconti di
Faccia a faccia (1964). C’era la guerra, aveva scampato l’inferno per miracolo. L’ospedale, come separazione dalla vita, un luogo-metafora che sarebbe tornato in
Muro d’ombra. Una frattura con infanzia e giovinezza, i tempi delle prime prove di scrittura teatrale e di recitazione con l’amico Antonino Caponnetto. Poi il dopoguerra, la storia della grande Dc a Firenze, ancora una volta uno spicchio di vita nazionale narrato in modo diaristico e autobiografico. Era la stagione di De Gasperi e di Dossetti, quella di Fanfani e di La Pira. Doni si era avvicinato progressivamente ai discorsi di La Pira, ne aveva bevuto le parole, i sogni, la voglia di incarnare il Vangelo nei progetti politici, lo riteneva un «profeta di pace e di civiltà cristiana», ne condivideva la ferma dolcezza. Della conversione e della riflessione intorno alla doppiezza di luce e buio ne scriverà nel
Muro d’ombra, che nel ’74 gli valse il Selezione Campiello. «La prova più felice di Doni» a detta di Mario Pomilio. Vi si racconta la storia di Marco, ricco industriale, che durante una vacanza sulla neve riporta una frattura a causa della quale è costretto a un periodo di degenza in ospedale e a una lunga riflessione su ciò che è diventato e ciò che intendeva essere da giovane. Le sue riflessioni si chiudono con un viaggio a Lourdes e con un risveglio inaspettato a un’altra vita, con la decisione di passare al figlio Mario le redini dell’azienda. Durante la lunga intervista che seguì, Doni ci fece intendere che era stata sua intenzione entrare con la narrativa nel grigio mondo impiegatizio, un mondo avvilito e avvilente, dove il cerchio degli interessi assorbe e uccide l’individuo. Aggiunse che il rapporto a suo dire mai risolto restava quello tra applicazione del Vangelo e vita politica e quotidiana.Ne scrisse in
La doppia vita, un romanzo poderoso e profondo al quale è stata prestata una ammirata attenzione da padre Ferdinando Castelli. Andrea Di Lello, io narrante e protagonista del romanzo, prova a trarre un bilancio della propria vita. Rifiuta l’ipocrisia dei tempi nuovi, gli anni del dopoguerra nei quali si va ricostruendo la vita del paese. Rifiuta a parole l’ipocrisia ma nei fatti accetta un importante impiego pubblico, sarà dirigente di un istituto di credito e nel contempo perseguirà nella vocazione di scrittore (la vocazione di Doni), con lo pseudonimo di Andrea Borri. Ancora un doppio. Si fa funzionario della Dc ma è in cerca di altro, si impegna nella vita pubblica ma vorrebbe non farsi inghiottire del tutto. Il romanzo ripercorre la vita del protagonista e in questo modo ricostruisce la storia dell’Italia dagli anni Venti in su e analizza le stagioni della violenza fascista e del nichilismo comunista. Nel terzo capitolo, intitolato «Il Partito», Doni discute della Dc. Il programma è buono, ma saranno in grado i rappresentanti politici di metterne in pratica i punti teorici? Andrea è sulla linea di Dossetti e La Pira, non riesce a condividere le posizioni di De Gasperi, uomo integerrimo ma troppo pratico e concreto. Di Lello-Doni pur impegnato in politica e venato di sentimenti cattolici, finisce con il rinunciare alla sobrietà, si rinchiude in un comodo posto di bancario e si invischia nelle beghe tra colleghi. E d’un tratto il risveglio, Di Lello comincerà ad avere in sospetto il difficile connubio tra politica e fede e non riuscirà a far collimare certe forme di malaffare che si affacciavano nei governi democristiani e le linee di cristallinità che proponeva il Vangelo. Questa malinconia dello scavo era destinata a scontrarsi con una terribile prova esistenziale, della quale si narrava nel
Dialogo con Lorenzo. Lorenzo Doni, suo quarto figlio, a ventidue anni aveva perso la vita in un incidente stradale mentre si recava a Taizé, presso la comunità di Frère Roger. Un viaggio a Lourdes aveva risvegliato Marco, uno a Taizé aveva ucciso Lorenzo. E ora Doni dialogava con un morto per sapere dei morti e per capire se e come vivevano gli eventuali risorti.