Testimoni. Don Roberto Sardelli, una tonaca nell'inferno delle borgate romane
Un borgata romana nel 1952
Quel prete di periferia, don Roberto Sardelli, parla ancora, nel bel libro-intervista curato e introdotto da Massimiliano Fiorucci, pedagogista di fama e direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione a Roma Tre, Dalla parte degli ultimi. Una scuola popolare tra le baracche di Roma (Donzelli, pagine 208, euro 25). Vi si ripercorre l’avventura di un prete sulla frontiera metropolitana, vi si ritrova la passione per gli uomini, le donne, i ragazzi dell’Acquedotto Felice; vi si respira il sogno di una scuola che fosse il riscatto di quella Barbiana di borgata. Tutto questo vien fuori, sorgivo e affascinante, dalla trascrizione dei cinque colloqui avuti con il curatore dall’iniziatore della "Scuola 725", tra l’ottobre 2015 e il giugno 2016.
Sono pagine che ci riportano indietro, in un’altra Roma. Quella pasoliniana delle "vite violente", quella degli immigrati italianissimi, benché meridionali, giunti in cerca di fortuna nella capitale del Paese del boom economico e costretti ad adattarsi tra le "marrane", ai margini della città della "dolce vita".
In quella Roma un giovane prete, che aveva incrociato l’esperienza di don Milani, scelse di tenere aperti gli occhi e il cuore, rinunciò a una consuetudine pastorale comoda ma poco evangelica («E allora io preferisco l’inferno, e vado alle baracche!»), si gettò a capofitto in una missione fondata sulla condivisione come quotidiano e sulla scuola come orizzonte. Una scuola a tempo pieno, come quella milaniana, centrata sulla riappropriazione della parola da parte di chi ne era escluso, animata da uno spirito critico, ambiziosa nel suo voler essere "politica" nel senso originario del termine: «Proposi lo studio come via d’uscita da una condizione umiliante», si ascolta ancora la voce di don Roberto nel materiale d’archivio ritrasmesso un anno fa da Radio3.
La scuola, la Chiesa, la periferia, sono i tre poli tra i quali si snoda il volume. Tra i quali si è mossa la vita di Sardelli, prete ciociaro "in uscita", che si trasferisce dalla parrocchia nella baracca n. 725, destinata da allora a ospitare lui e la scuola omonima. Un gesto che significava il rifiuto di ogni assistenzialismo («Ai baraccati ho portato la scuola!»), un’idea precisa di Chiesa («Occorre ritornare agli ambienti ai quali si avvicinava il Cristianesimo primitivo e lo stesso Cristo, cioè gli ambienti più disagiati, i poveri, i rifiutati dalla società»), l’impegno a trasmettere a ogni bambino la fiducia nel cambiamento esistenziale che nasce dalla cultura («Io, baraccato, povero, etc., devo diventare uno scrittore, una persona in grado di riflettere sugli eventi»).
Ecco allora che da una baracca si possono criticare Roma e il mondo. Per cambiarli. Perché in nessun luogo si replichi quel che si legge nella "Lettera al sindaco": «Dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa, l’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno». Del resto sappiamo che la scuola è vera scuola se «si dedica al prossimo», «se fa strada ai poveri »; che «il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti» (Lettera a una professoressa).
Dalla parte degli ultimi ci ricorda che ci si può spendere per una visione tanto più larga quanto più marginale e nascosto è il luogo dal quale essa sembra prendere il via. Non tutto quel che Sardelli dice è condivisibile, non tutto è replicabile. Ma la sua parola indica la periferia come lo scenario di un cambiamento possibile, necessario, avvincente. E quell’esperienza ci dice qualcosa di vero sull’oggi: non ci sono tante nuove Scuole 725 da tirar su? Don Roberto ci indica la strada, in una delle ultime pagine: «Io quando sono andato a Ponte Mammolo e ho visto i migranti di oggi, stavo accanto a Emidio, uno dei ragazzi [di allora], che oggi è insegnante a Ostia, e mi diceva "Qui sarebbe bello fare quello che abbiamo fatto noi..."».