Inediti. Don Milani figlio di papà (anche nella fede)
Il giovane Lorenzo Milani nel marzo 1930, quando aveva quasi 7 anni
Don Milani «convertito» dal papà. Finora la storia conosciuta era la seguente: il giovane Lorenzo, nato in famiglia agnostica da madre ebrea (non praticante), battezzato a 11 anni solo per sfuggire alle leggi razziali, passa dall’ateismo dichiarato al cristianesimo e alla vocazione religiosa rapito dalla bellezza della liturgia cattolica e grazie alla lettura di un messale trovato nella cappella della villa di campagna («È più interessante dei Sei personaggi » di Pirandello, scrisse). Ma a riconsiderare – almeno parzialmente – la vicenda di una vocazione religiosa che sembrava un unicum nella dinastia di non credenti Milani concorre adesso una ricerca compiuta dalla nipote del sacerdote fiorentino, figlia del fratello maggiore Adriano. Valeria Milani Comparetti ha intrapreso infatti l’opera di riordino dei cospicui archivi aviti (la famiglia annovera diversi antenati illustri negli studi) e si è immediatamente imbattuta nelle carte del nonno Albano: il papà del Priore di Barbiana.
Una figura finora rimasta assolutamente in ombra nella pur notevole bibliografia milaniana, anche perché morì relativamente giovane, pochi mesi prima dell’ordinazione sacerdotale del figlio – di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. E qual è il merito forse principale di Don Milani e suo padre. Carezzarsi con le parole, il volume delle Edizioni Conoscenza (pagine 320, euro 20) in cui la signora Valeria pubblica numerose e interessantissime foto di famiglia, l’epistolario in cui papà Albano parla anche di Lorenzo alla moglie Alice e un saggio che ci fornisce particolari utili a precisare – a volte correggendolo – il primo contesto in cui si sviluppò la personalità del futuro prete? La rivelazione che nella famiglia Milani il dibattito religioso, e in particolare quello sul cattolicesimo, non era affatto un oggetto misterioso, anzi che il padre di Lorenzo si fece promotore in casa sua di profonde riflessioni in materia. Tanto che la conversione del ragazzo non poté di sicuro prescinderne. Finora Albano Milani, classe 1885, laureato in chimica, era considerato soltanto l’oculato e razionale gestore del patrimonio famigliare; era infatti il primogenito e a 29 anni, alla morte dei genitori, aveva dovuto assumere anche a nome dei fratelli le redini delle proprietà (tra cui la tenuta della Gigliola a Montespertoli, dove don Lorenzo trascorse molta parte dell’infanzia). Gli affari – lavorò anche come chimico e per una società francese di organizzazione aziendale – tuttavia non lo distolsero da una ricca attività culturale: Albano conosceva varie lingue, come del resto tutti in famiglia (e anche il Priore ne fece un puntiglio per gli alunni della sua scuola), tradusse Il processo e Il castello di Kafka quando ancora non erano arrivati in Italia, componeva poesie in latino (una anche per la vestizione religiosa del figlio), amava disegnare (Lorenzo voleva diventare pittore...), si occupava ecletticamente di varie materie come la statistica e la storia, avendo l’abitudine di battere a macchina in più copie le sue relazioni per distribuirle agli amici e alla famiglia in modo da riceverne le impressioni e alimentare la discussione.
Alcuni di tali testi circolati in famiglia sono appunto dedicati al cristianesimo; il primo risale al 1928 , quando Lorenzo aveva appena 5 anni, ma il secondo è del 1941 e un terzo – forse il più sorprendente – è datato 1946: ed è dunque assolutamente probabile che il giovane figlio li abbia letti e commentati col padre. Se nel dattiloscritto del 1928 (41 pagine intitolate «Ragione, Religione e Morale») la preoccupazione di Albano Milani è chiarire la sua posizione religiosa come equidistante tra fede e ateismo («L’uomo propriamente moderno non nega nulla ma non ha fede in nulla, tranne forse nella ragione »), nelle carte successive l’indagine affronta in modo ben più diretto il cattolicesimo: l’autore rivela tra l’altro di aver studiato libri di teologia dogmatica e si dimostra informato sul culto mariano attraverso scritti del cardinale Newman. «Anch’io sono giunto solo a gradi – scrive addirittura nel 1947 – a rendermi conto quanto grande inferiorità dei protestanti sia quella di non avere il culto della Madonna»... Insomma, come nella prefazione ben sintetizza padre José Luis Corzo – pedagogista spagnolo che da molti decenni è un esperto studioso di don Milani – «la vocazione di Lorenzo, per inattesa che fosse, in famiglia non fu come un raggio caduto dal cielo. E la connessione familiare con l’ebraismo non sembra più rilevante che con il cristianesimo». E Valeria Milani Comparetti rincara: «Non intendiamo affermare che Albano fu determinante nella decisione di Lorenzo di prendere i voti, ma solo che certe tematiche cristiane erano ben presenti nella sua famiglia di origine... È verosimile che Lorenzo fosse coinvolto e stimolato dalle speculazioni del padre, anche se abbiamo pochi riscontri sulle sue opinioni in merito».
Il nuovo libro – che giunge alla vigilia del 50° della scomparsa del sacerdote fiorentino – offre parecchie altre chicche inedite sul primo periodo della sua esistenza, persino grazie al diario tenuto dalla madre sui primissimi anni di vita. Apprendiamo così per esempio che Lorenzino a meno di due anni cantava in tedesco, che imparò a scrivere a macchina (le famiglie Milani e Olivetti erano amiche) a soli 5 anni, che uno dei divertimenti praticati in famiglia erano i quiz sulle etimologie delle parole: tutti elementi che – come ben sa chi conosce la figura del Priore – ritornano poi pesantemente nella sua biografia. E poi c’è il coraggio dimostrato durante l’occupazione tedesca e il passaggio del fronte in Toscana nell’estate 1944, quando Lorenzo – all’epoca seminarista – si recò a piedi da Firenze a Montespertoli per aiutare il padre a tenere a bada i nazisti che avevano occupato la tenuta e scampò miracolosamente a una cannonata che aveva colpito la sua stanza. Soprattutto apprendiamo che, grazie alla conoscenza del tedesco e dell’inglese, il giovane intervenne più volte come mediatore in occasioni delicate per difendere gli sfollati e l’anziano sacerdote della vicina pieve; e se non esitò a denunciare a un ufficiale alleato gli abusi compiuti dalle truppe indiane, d’altra parte – quando quello voleva passare i colpevoli per le armi secondo il codice di guerra – s’interpose sostenendo che (Albano s’affretta a scriverlo con orgoglio alla moglie) «come chierico non poteva sopportare il pensiero di avere sulla coscienza la morte di questi uomini in conseguenza di un intervento da lui provocato». Ebbene sì, il carattere era già quello.