In cammino con Dante/21. Domenico, testimone della povertà
San Domenico di Guzmán nacque a Caleruega nel 1170 e morì a Bologna il 6 agosto 1221
Nell’elogio chiastico che segue, al canto XII, ove è san Bonaventura francescano a lodare il fondatore dei Domenicani, Domenico di Guzmán (Caleruega, 1170 - Bologna, 6 agosto 1221), continua lo stesso elogio della povertà, come ci tramandano le prime fonti domenicane, in particolare il Testimonium fratris Stephani, raccolto nel Libellus de principiis Ordinis Prædicatorum: «In quel tempo si estese in quella regione [Palencia, in Spagna] una spaventosa carestia, così che molti poveri vi morivano di fame. Da ciò commosso e pieno di misericordia, Domenico vendette i libri di sua mano chiosati, e distribuì il ricavato e tutto ciò che aveva ai poveri, dicendo: “Non voglio studiare su morte pelli [le pergamene dei libri] quando gli uomini muoiono di fame”». Dante stesso lo presenta come dedito al “primo consiglio” proposto dal Cristo ai suoi seguaci e cioè la povertà: «Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (vv. 73-75). Si è appena celebrato l’ottavo centenario della morte di san Domenico, ed è bene ricordarlo con le parole di Dante: «dentro vi nacque l’amoroso drudo / de la fede cristiana, il santo atleta / benigno a’ suoi e a’ nemici crudo» (vv. 55-57). “Atleta” precisamente come si presenta, nel mito che suscita quella figura nel mondo greco, san Paolo: cursum cucurri, «Ho combattuto la buona battaglia, ho corso la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tim, 4, 7). E come celebra san Francesco e san Domenico la Legenda aurea (da cui la struttura dei canti XI e XII del Paradiso dipende), vigorosi araldi e soldati del Regno: «E la Vergine: “Figlio mio, trattieni il tuo furore e attendi, poiché io conosco un fedele servitore e un coraggioso combattente che, percorrendo il mondo, lo sottometterà al tuo regno. E gli darò per compagno un altro servitore, che gareggerà con lui in zelo e coraggio” […] Allora ella presentò al Cristo san Domenico; e il Cristo: “Ecco, un buon e generoso combattente!”. Poi ella gli presentò san Francesco, del quale il Cristo pronunciò lo stesso elogio. Ora san Domenico, che mai ancora aveva visto il suo glorioso rivale, lo riconobbe – il giorno dopo – nella chiesa, quasi séguito del sogno ove l’aveva appena scorto. Corse dunque a lui, lo abbracciò devotamente e gli disse: “Sarai il mio compagno, e le nostre strade si fiancheggeranno. Uniamoci, e nessun avversario prevarrà contro di noi!”» ( De sancto Dominico). Parimenti, Dante lo celebra come “sposo”: se Francesco lo fu della Povertà, Domenico è della Fede: «Poi che le sponsalizie fuor compiute / al sacro fonte intra lui e la Fede, / u’ si dotar di mutüa salute » (vv. 61-63). Accenna appena il canto XII alla sapienza di Domenico: «e come fu creata, fu repleta / sì la sua mente di viva vertute, / che, ne la madre, lei fece profeta» (vv. 58-60), poiché ciò che preme a Dante sono – non meno che per Francesco – i segni propri dell’ascesi: «Spesse fïate fu tacito e desto / trovato in terra da la sua nutrice, / come dicesse: “Io son venuto a questo”» (vv. 76-78); versi che mirabilmente sintetizzano uno dei primi paragrafi della vita del santo nella Legenda aurea: «Mentre ancora era affidato alla custodia delle nutrici, più volte fu sorpreso levarsi dalla culla per stendersi sulla nuda terra [ et super nudam humum jacere] » (cap. CXIII: De sancto Dominico). E lo stesso “io son venuto a questo” va inteso come conferma di quei primi impulsi, ad aderire insomma alla povertà, significata, come per il transito di san Francesco, dalla nuda terra, secondo anche la chiosa di Benvenuto da Imola: « ad istum statum humilitatis, velut si diceret sibi ipsi Dominicus: “ Terra es, et in terram reverteris” ». Come tra poco nei canti di Cacciaguida (antenato di Dante e crociato), il poeta celebra in Domenico il “cristiano militante”, quell’endiadi – così propria a Dante stesso – di dottrina e insieme energeia: «Poi, con dottrina e con volere insieme, / con l’officio appostolico si mosse / quasi torrente ch’alta vena preme; / e ne li sterpi eretici percosse / l’impeto suo, più vivamente quivi / dove le resistenze eran più grosse» (vv. 97102). Le due terzine si riferiscono agli episodi, enfatizzati nella Legenda aurea, delle sue battaglie dottrinali contro gli eretici catari, soprattutto nelle regioni di Carcassonne e di Tolosa; ma la Legenda stessa mette in luce un altro episodio, e cioè il suo sodalizio con Folchetto di Marsiglia, vescovo di Tolosa, sottolineando: «Essendo dunque rimasto dieci anni nella regione di Tolosa, dalla morte del vescovo d’Osma sino alla convocazione del Concilio Laterano [III, 1179], si mise in cammino per Roma in compagnia di Folchetto, vescovo di Tolosa. A Roma chiese a papa Innocenzo III l’autorizzazione a fondare un nuovo ordine, che avrebbe nome dei “Frati Predicatori”». In realtà il compagno di pellegrinaggio fu Diego de Acevedo; ma la collaborazione con Folchetto ebbe veramente luogo (1206-1212) e l’eco che si diffuse saldò in Dante un unico modello, quello straordinario intreccio di ardente amore e altrettanto fervida conversione in Folchetto e insieme di tenace battaglia morale in Domenico; nella Commedia li troviamo dunque prossimi ( Paradiso, canti IX e XII), uniti nella passione del bello e del vero, in quella terzina che da sola è il più alto commento al detto agostiniano Ama et fac quod vis: «Non però qui si pente, ma si ride, / non de la colpa, ch’a mente non torna, / ma del valor ch’ordinò e provide» (IX, 103-105).
Terzina eponima
Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo.
(Paradiso XII, 70-72)