La storia. Domenicani e armeni cattolici: l'antico esodo dal Naxçivan
Vista generale della necropoli di Djoulfa (Nakhitchevan) alla fine del XIX secolo, in una xilografia anonima da una fotografia di M. Chantre, da Chantre B., "A travers l'Arménie Russe", Parigi, Librairie Hachette, 1893
La fine della guerra in Nagorno-Karabakh sta avendo come risultato l’esodo in massa degli armeni mentre è alto l’allarme sulle sorti del patrimonio religioso e culturale. Il timore è che si replichi quanto accaduto in Naxçivan (o Nakhichevan), una lingua di terra stretta tra Armenia e Iran ma che si configura come una exclave dell’Azerbaigian, di cui costituisce una Repubblica autonoma. Qui nel 1917 il 40% della popolazione era armena, poi calata durante l’era sovietica (il territorio insieme al Nagorno-Karabakh nel 1921 fu assegnato da Mosca agli azeri invece che all’Armenia dopo un trattato con la Turchia) e ridotta a zero dopo la prima guerra del Nagorno-Karabakh negli anni ’90. E qui nel 2005 sono stati distrutti i 2mila khachkar del cimitero armeno di Julfa (città da cui prende il nome Nuova Julfa, il quartiere di Isfahan fondato dagli armeni deportati dai persiani nel 1603): un atto di “genocidio culturale”.
Quello che sta accadendo non è purtroppo una novità ed è anzi solo una sorta di costante della storia di quest’area stretta tra gli interessi di grandi potenze. Uno di questi casi vede al centro la storia poco nota degli armeni cattolici e interessa proprio l’area del Naxçivan.
Alla fine del XIII secolo, nell’ambito di una vasta espansione missionaria condotta dagli ordini mendicanti, i domenicani erano entrati in Armenia e nel 1318 avevano fondato una diocesi con sede nella città di “Naxivan”, antica trascrizione latina per Naxçivan. Lo scopo della presenza era ricondurre la Chiesa apostolica armena in unione con quella di Roma. La loro predicazione suscitò l’interesse di Yohan, abate del monastero basiliano di K’rnay, o Kirna, in Naxçivan, che insieme ai confratelli nel 1340 circa fondò l’ordine dei Fratres Unitores, una congregazione affiliata all’ordine dei predicatori. Questi religiosi accolsero oltre alla dottrina cattolica anche la liturgia, che tradussero – insieme ai testi della scolastica – in armeno.
Il particolare attivismo e il proselitismo dei Fratres Unitores è stato oggetto di polemica nella storiografia (anche cattolica) e da parte armena ortodossa: l’accusa più frequente verso questi gruppi è di essere stati un fattore di divisione per la comunità armena. Più di recente altri studiosi hanno sottolineato il ruolo di questi frati nella difesa della cristianità davanti all’islam. I Fratres Unitores e le comunità armeno-cattoliche si espandono rapidamente e si riscontrano lungo le linee commerciali che andavano dal Naxçivan a Leopoli passando per Caffa, in Crimea, e Pera, la colonia genovese di Costantinopoli. Queste regioni costituivano da una parte una frontiera tra il cristianesimo orientale, greco e armeno, e la Chiesa romana e dall’altra una linea di postazioni avanzate della cristianità in aree sotto la minaccia musulmana. Tra XIV e XV secolo le cronache dell’epoca riportano le devastazioni provocate dalle invasioni di Tamerlano, ma gli Unitores dovettero affrontare anche l’ostilità della Chiesa armena apostolica che alla fine del Trecento sottrasse loro numerosi monasteri, incarcerando molti dei frati e arrivando a punirne alcuni con la morte.
Nel 1583 l’ordine venne sciolto e assorbito dai domenicani sotto il nome di Provincia Naxvanensis, continuando però a mantenere la lingua armena a livello liturgico. Armeni erano i frati e armeni anche molti vescovi di Naxivan, sebbene a partire dal XVII secolo, specie dopo l’istituzione di Propaganda Fide, inizia un processo di normalizzazione con l’invio di frati europei – soprattutto italiani – e che nel lungo periodo avrebbe determinato il declino di questa comunità.
Mentre altrove la presenza domenicana cede alla pressione turca e persiana, gli armeni cattolici del Naxivan resistono fino al XVIII secolo, quando le violenze si intensificano. Nel 1750 padre Franzosini, provinciale del Naxivan dal 1744 al 1756, ricordava che i cinque episcopati cattolici creati dagli Unitores, «per le rivoluzioni, guerre e pestilenze di quel regno, si sono tanto scemati sino a ridursi al solo Arcivescovado di Naxivan». Lo stesso riportava che i «popoli di quel distretto essendo ne confini dell’uno e l’altro Impero Persiano ed Ottomano più di ogn’altro hanno sofferto d’ambe le parti (…) spogli e saccheggi, durati per lo spazio di più di 15 anni, ma ancora incredibili barbarie nelle famiglie, e persone, avendo dovuto dare in sconto di robba e denaro che più non avevano, le mogli e le figliole».
In questi anni la diocesi è affidata al lodigiano Domenico Maria Salvini, già vicario generale dell’ordine a Costantinopoli, che nel 1732 era stato nominato 34° (e ultimo) arcivescovo di Naxivan. La guerra tra Ottomani e Safavidi ormai infuria. I conventi vengono bruciati, molti dei frati vengono uccisi, affamati a morte o deportati. La diaspora dei cattolici armeni, già avviata, diviene allora un vero e proprio esodo. A partire è tutta la comunità, guidata dallo stesso arcivescovo. Salvini guida una novantina di frati e poco meno di un migliaio di persone verso Smirne: una vera e propria anabasi, un viaggio di oltre 1.800 chilometri attraverso tutta l’Anatolia.
I domenicani armeni erano già giunti a Smirne nel 1718 e nel 1755 avrebbero fondato la chiesa del Santo Rosario nel quartiere di Alsançak, oggi centro della comunità cattolica e retta tuttora da domenicani italiani. La tradizione dei profughi armeni cattolici (che a Smirne erano noti come “persiani”) vuole che una lista di famiglie provenienti dal Naxçivan fosse stata scolpita nella pietra ed esistesse nella chiesa francese di San Policarpo.
La comunità sarebbe fiorita fino agli anni del genocidio e all’incendio di Smirne del 13 settembre 1922 – l’ultimo atto dello sterminio pianificato dai Giovani Turchi per eliminare i millet cristiani – con cui le truppe di Nureddin Pascià uccisero 30mila e costrinsero alla fuga e all’esilio 250mila tra greci e armeni (ma anche “franchi”, ossia europei). Ma siamo andati troppo in là. Nella nostra storia padre Salvini tornò in Italia nel 1759 e morì nel 1765 a Roma nel convento di Santa Sabina. A Smirne l’ultimo dei superiori nativi del Naxçivan sarebbe stato in carica fino al 1782. L’ultimo frate domenicano armeno morì nel 1818.