Convegno. Dolores Prato, la "rivincita" letteraria della provincia italiana
Un'immagine di Dolores Prato (1892-1983) da giovane
È stata “la ferita dei non amati” a far sbocciare il genio di Dolores Prato per la scrittura. Voce fuori dal coro letterario e della cultura del Novecento, l’autrice di Giù la piazza non c’è nessuno, ha saputo raccontare la provincia italiana con delicata ruvidezza e sconcertante sincerità. Perché la “sua” Treia, come per Leopardi il vicino «borgo» di Recanati, Dolores l’ha vissuta sempre nella vana attesa di un “dì di festa”, descrivendo con improvvise illuminazioni, lampi di prosa, le chiese, i monumenti, i contadini e i giochi dei bimbi in un luogo lontano dal mondo dove, in un deserto di affetti, ci si può anche incantare davanti a un ombrello o ascoltando una vecchia che racconta al nipotino una scantafavola.
«Treja fu il mio spazio... terra del cuore e del sogno» scriveva Prato nel suo romanzo senza trama che prende il titolo da una graziosa piazza, quadrata e un po’ sghemba, aperta verso le “infinite” colline del Maceratese. E adesso la cittadina, che ne custodisce la memoria in un Centro studi, le rende omaggio celebrandola per i 130 anni dalla nascita con un premio letterario, un convegno (22 e 23 aprile) e un Festival (a settembre). L’evento è promosso anche dall’Associazione culturale Ev e dal Comune. Al convegno, al Teatro Comunale, “Doloros Prato, la memoria è domani. L’eredità culturale che fa crescere la comunità” partecipano, tra gli altri, Lucia Tancredi (che sabato alle 18 terrà anche una lezione-spettacolo), Carla Carotenuto, docente di letteratura italiana all’università di Macerata e Manuel Orazi, della casa editrice Quodlibet che ha pubblicato alcune opere della scrittrice. Il sindaco Franco Capponi chiuderà il dibattito sul ruolo della cultura nello sviluppo del territorio e della comunità locale, al quale sarà presente pure il rettore dell'università di Camerino, Claudio Pettinari.
Treia, dunque, terra d’elezione della scrittrice, che nacque a Roma nel 1892 e morì ad Anzio, in solitudine, ospite di una Casa di riposo, nel 1983. «Ci stetti poco, l’infanzia, l’età delle carezze non ricevute» ricordava. Dolores era figlia di un avvocato calabrese che non la volle mai riconoscere e di Maria Prato Pacciarelli con la quale il professionista aveva avuto una relazione extraconiugale. E così visse dai cinque ai diciotto anni a Treia, accolta in casa degli zii materni don Domenico («mezzo prete e mezzo pittore») e la sorella Paolina Ciaramponi, che all’inizio non seppe amarla. L'incipit di Giù la piazza non c'è nessuno racchiude in sé tutto il senso e la poetica del romanzo: "Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: – Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?". La ragazza venne condotta poi nell’Educandato del monastero delle suore della Visitazione, sempre a Treia, dove si formò anche negli studi letterari, completati a Roma con una brillante laurea in filosofia che le diede modo di tornare nelle Marche a insegnare, nei licei di Macerata e San Ginesio. Uno dei suoi insegnanti al Magistero fu Luigi Pirandello, che lei però non amò. Con suor Margherita Maria Masi, la “madrina” del collegio di religiose in cui visse, Dolores intrecciò una fitta corrispondenza raccolta in seguito nel libro Le Ore.
Giù la piazza, il suo capolavoro, un memoir di oltre mille pagine, ebbe una vita editoriale travagliata: pubblicato da Einaudi nel 1980 dopo diversi rifiuti, quando l’autrice aveva 88 anni, con testo rimaneggiato da Natalia Ginzburg (a cui non piaceva), fu rilanciato con successo in versione integrale da Mondadori nel 1997 grazie al saggista e germanista Giorgio Zampa, anche lui marchigiano (San Severino Marche, 1921-2008), amico ed editor di Eugenio Montale. «Prato aveva la perentorietà, che poteva diventare asprezza, di chi non accetta le leggi usuali della vita – raccontava Zampa – i compromessi, le piccole e grandi viltà, aborriva le espressioni pietose, le parole di compassione. A 90 anni, quando potei frequentarla, era irriducubile, temeraria, esigentissima, avversa a ogni forma di prevaricazione (...) ma dolcissima in certi abbandoni che la facevano apparire senza età».