Il caso. Elezioni, quando la storia si ripete: il Doge insegna
La raffigurazione dei bossoli svuotati dalle ballotte prima del conteggio dei voti
Urna, ballottaggio, broglio: parole piuttosto utilizzate in questo periodo elettorale. Magari broglio è sperabile di no, ma quasi non passa elezione senza che qualcuno denunci brogli vari, molto più presunti che reali. Erano reali, invece, gli accordi elettorali che venivano presi nel cortile di palazzo Ducale, a Venezia, tra i membri del patriziato che votavano nel Maggior consiglio. Il cortile era chiamato brolo, o broglio, e da lì deriva la parola, entrata in uso nel Cinquecento, mentre le frodi elettorali erano di sicuro precedenti. I patrizi esprimevano il voto deponendo nell’urna una pallina, prima di rame, poi di pezza. Veniva chiamata ballotta e anche questa parola è entrata nell’uso comune: nel termine italiano ballottaggio e nell’inglese to ballot e ballot box che significano rispettivamente votare e urna. «Per l’elezione del doge un incaricato gira con un contenitore di legno dipinto di bianco e dove ciascun membro del consiglio depone una ballotta di tela bianca, della grandezza di una piccola ciliegia»: siamo nel 1505, sempre a Venezia, sempre nel Maggior consiglio, e questa è la prima descrizione conosciuta di un’urna elettorale. Non sappiamo chi abbia scritto queste parole, sappiamo invece a chi erano destinate: all’ammiraglio francese Louis Malet de Graville, stretto collaboratore di tre re di Francia. Malet aveva commissionato una relazione per capire come funzionassero le istituzioni statali veneziane. Vi si ritrovano descritte, e disegnate, le urne che, evidentemente, dovevano essere un’interessante novità per l’epoca.
Nel Maggior consiglio veneziano si utilizzavano urne di tipo diverso: quella descritta più sopra era usata solo per l’elezione del doge e avrebbe cambiato forma nel corso dei secoli. Quasi immutate, invece, rimangono fino alla caduta della repubblica (12 maggio 1797) le urne utilizzate per le votazioni ordinarie. Erano state inventate da un frate e il 6 giugno 1492 imposte dal consiglio dei Dieci a tutte le magistrature veneziane al fine di garantire la segretezza del voto. Ci riuscivano solo in parte e ora vediamo perché. I membri del Maggior consiglio erano oltre un migliaio, alcuni ragazzini passavano con le urne tra i banchi dove i patrizi sedevano rigorosamente in silenzio. Si trattava della cosiddetta urna a due bossoli (due contenitori): ci si infilava la mano da un’apposita apertura e si deponeva la ballotta nel contenitore rosso (o bianco) se si votava a favore oppure in quello verde se si votava contro. Dall’esterno non si vedeva nulla. I due bossoli venivano disuniti e le palline a favore e quelle contro gettate separatamente in due grandi vassoi convessi di cuoio, detti cappelli, perché probabilmente in origine erano proprio dei copricapi. Dopodiché si procedeva al conteggio.
C’era però un problema: gli astenuti. Il voto dei cosiddetti “non sinceri” veniva raccolto con un’urna a parte, contravvenendo in tal modo alla segretezza del voto. Per questo motivo fu introdotta – non sappiamo quando, ma di sicuro prima del 1530 – l’urna a tre bossoli, che permetteva di esprimersi anche agli astenuti. In seguito si utilizzeranno le urne a due bossoli per le cariche, quelle a tre per le leggi. A Venezia era patrizio chi aveva diritto di sedere – e votare – nel Maggior consiglio, dal 1297 tale diritto era diventato ereditario. Nel Cinquecento i patrizi che assistevano regolarmente alle sedute del parlamento aristocratico erano tra i 1000 e i 1500, con punte di 1800 per gli avvenimenti più importanti. Parecchi erano ricchi, alcuni ricchissimi; altri, invece erano poveri, in alcuni casi molto poveri. Questi ultimi avevano una sola possibilità per sopravvivere: essere eletti nelle cariche retribuite. E chi era determinante per eleggerli? I patrizi ricchi che invece volevano accedere alle cariche non retribuite, ma prestigiosissime, prima fra tutte quella di doge.
Era un vero e proprio voto di scambio dove, per dirla con lo storico Gaetano Cozzi, «i ricchi servivano per eleggere i poveri, i poveri per far riuscire i ricchi». I nobiluomini si riunivano nel broglio e quelli che volevano mettere in vendita il proprio voto «si cavano la bareta», «si tocano la barba», come scriveva il cronista Marin Sanudo. Più tardi, abbasseranno sul braccio la stola di velluto nero che normalmente si portava sulla spalla. I più furbi facevano capire per chi votavano gettando rumorosamente la pallina di rame nell’urna, finché furono adottate le ballotte di pezza, che non fanno rumore, confezionate dalle suore di San Girolamo.