Il docufilm. Voci, martiri e luoghi della Teologia della Liberazione
Un'immagine del docufilm "L'évangile de la Révolution"
Un documentario per ricostruire la memoria della Teologia della Liberazione, sottolinearne l’importanza storica attraverso numerose interviste e un corposo bagaglio di immagini di repertorio, ripercorrendo le lotte sociali in El Salvador, Brasile, Nicaragua, Messico, rievocate anche attraverso alcuni passi del Vangelo come «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Luca 12,49), «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Luca 1,52), «Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Matteo 20,16).
Il vento rivoluzionario che ha soffiato sull’America Latina del XX secolo deve molto infatti alla partecipazione di milioni di cristiani, impegnati nelle diverse lotte politiche in nome della propria fede. Guidati dalla Teologia della Liberazione hanno combattuto i regimi militari e le oligarchie a rischio della propria vita. A dispetto dell’idea marxista della “religione come oppio dei popoli” abbracciata molti anni fa, il 43enne regista francese François-Xavier Drouet è andato a incontrare le donne e gli uomini che hanno creduto di vedere nella rivoluzione l’avvento del Regno di Dio, sulla terra prima che in cielo, e che hanno sovrapposto in modo radicale la propria esistenza a quella del movimento, con la speranza di una società più egualitaria. Sin dagli anni Sessanta quasi 200 preti, predicatori, suore, missionari, frati della Chiesa cattolica e di quelle riformate sono stati uccisi a causa del loro impegno per la giustizia. Insieme a migliaia di catechisti, agenti pastorali e membri della comunità ecclesiastica. Più dei martiri cristiani dei primi secoli, sottolinea il regista. Le loro speranze però non hanno smesso di nutrire battaglie presenti e future.
Ne è nato L’évangile de la Révolution, un film presentato al Biografilm Festival, in programma a Bologna fino al 17 giugno, il racconto dell’impegno, del coraggio, della sete di giustizia di tanti cristiani, ma anche di una storianon priva di contraddizioni e delle ragioni che hanno portato al fallimento delle esperienze rivoluzionarie in molti paesi dell’America Latina, attraverso i quali Drouet ha viaggiato in cerca dell’eredità lasciata dalla Teologia della Liberazione.
A El Salvador incontriamo padre Roger Ponseele che, pur senza mai toccare un’arma, accompagnò per dodici anni chi aveva deciso di sollevarsi contro una delle più antiche dittature latinoamericane. I media parlarono di guerra civile, ma per le migliaia di contadini organizzati in gruppi di guerriglia si trattò di una vera e propria rivoluzione, convinti che il primo rivoluzionario fosse proprio Gesù, venuto sulla Terra per mostrare la via della liberazione. Quando la repressione cominciò a colpire forte, essere catechisti o il semplicemente possedere una Bibbia divenne un crimine punito con la prigione o la morte da un esercito il cui motto era: «Sii un patriota, uccidi un prete».
Il documentario racconta poi di Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, che parlava chiaramente di violenza istituzionale perpetrata dalla destra, decisa a usare l’oppressione per preservare i propri privilegi. Romero venne ucciso il 24 marzo 1980 mentre celebrava la Messa, tragedia che inasprì la rivolta. Fu allora che gli Stati Uniti dichiararono la Teologia della Liberazione un pericolo ancora più grande del comunismo, frustrando le ambizioni di giustizia in paesi come Cile, Brasile, Bolivia, Guatemala e sovvenzionando la repressione dei militari, paradossalmente in nome dei valori cristiani.
Il teologo, attivista, scrittore e politico domenicano Frei Betto in Brasile ricorda come Marx definì la religione anche «il grido di un cuore in una società senza cuore», un grido di protesta e resistenza. Sono rievocate le atroci torture inflitte a padre Tito de Alencar, si dice come la Chiesa abbia prima sostenuto il colpo di stato militare del 1964 per poi diventare la più grande nemica della dittatura e si cita Hélder Câmara, arcivescovo di Recife, che diceva: «Quando dono il cibo ai poveri mi chiamano santo, quando mi chiedo perché sono poveri mi chiamano comunista». Intervistato poi il ben più radicale Leonardo Boff, uno dei fondatori della Teologia della Liberazione e autore del libro Chiesa: carisma e potere, che non piacque al Vaticano per le critiche alle gerarchie e alle istituzioni.
Passando in Nicaragua si parla di Rafael Aragon, prete spagnolo che accompagnò per dieci anni l’esperienza sandinista, della necessità di insegnare a leggere agli ultimi della terra, ma anche a nutrire la consapevolezza della loro dignità. Si racconta poi della visita di Giovanni Paolo II a Managua il 4 marzo 1983, di un Papa furioso alla vista di un manifesto che recitava «Benvenuto nel Nicaragua libero grazie a Dio e alla rivoluzione». In quell’occasione il Pontefice rifiutò di stringere la mano a Ernesto Cardenal, sacerdote, poeta e teologo, divenuto Ministro della Cultura dopo la caduta del regime di Somoza, nel governo di Daniel Ortega, ma il giorno dopo, come ricorda la giornalista e teologa Maria Lopez Vigil, strinse quella di Roberto D’Aubuisson, presidente dell’Assemblea Legislativa di El Salvador, considerato “l’assassino intellettuale” di Romero. Un atteggiamento che deluse i nicaraguensi, ma che va evidentemente inquadrato nella storia personale e globale del Papa polacco, il cui ruolo fu determinante nella caduta dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est e in una storica, motivata diffidenza della Chiesa nei confronti del marxismo. Sospeso a divinis per la sua militanza politica, Cardenal è stato poi pienamente reintegrato da papa Francesco. Il film analizza anche le cause del fallimento della rivoluzione: i leader dei sindacati divennero uomini d’affari che, smarriti valori e ideali originari, si focalizzarono sull’amministrazione del grande potere economico.
Il regista si sposta infine in Messico dove la Teologia della Liberazione trovò la sua strada in Chapas, negli anni Sessanta, grazie al giovane arcivescovo Samuel Ruiz, che al suo fianco per decenni ebbe padre Gonzalo Ituarte. Visitando le diverse comunità Ruiz non stava con i padroni, ma nelle capanne insieme ai nativi, leggendo il Vangelo nella loro lingua. E con gli zapatisti, tra i cui leader c’erano molto catechisti, per la prima volta un movimento di guerriglia non chiedeva il potere, ma giustizia e democrazia per tutti. Ruiz divenne mediatore tra rivoluzionari e governo. La parola passa infine a sorella Dolores Palencia che, occupandosi di assistenza ai migranti lungo il cammino per gli Usa, lavora con la sua congregazione per favorire comunione e riconciliazione.