Tre giovani sbucano dal nulla e con grossi bastoni tracciano sulla sabbia dello stadio il simbolo cristiano del pesce. Fulminei i soldati romani li inseguono e li catturano. È il caos: la folla rumoreggia, gli ufficiali della Legione lanciano secchi comandi, il governatore, dalla sua tribuna, esige che si riporti l’ordine dopo l’inaudito sacrilegio. I tre, legati, vengono in pochi istanti condotti di fronte all’uomo forte del potere di Roma: vanno messi a morte. Un brivido percorre gli spalti gremiti dello stadio. Ma ecco il colpo di scena. Il centurione romano comandante della legione alza la spada e, guardando verso il governatore, grida il suo basta. Basta con la violenza, basta con questi giochi sanguinari, basta con i sacrifici ai falsi dei. «Sì, sono diventato cristiano e l’alba di un nuovo mondo sta sorgendo». Non è un film, non è un videogioco. È l’inizio, drammatico, sorprendente, emozionante di uno spettacolo che ogni giorno d’estate si replica per tre volte in una località della Francia a due passi dai castelli della Loira; un luogo in cui è stata ricostruita un’arena romana da seimila posti (con il primo
velarium dai tempi del Colosseo); un luogo in cui potete anche rivivere la razzia dei pirati vichinghi sventata dal miracolo delle reliquie di un santo, seguire le gesta dei cavalieri, entusiasmarvi di fronte alle evoluzioni di centinaia di rapaci addestrati dai falconieri. Segnatevi questo nome: Grand Parc du Puy du Fou. È in Vandea, a 80 km da Nantes e da La Rochelle. È un parco a tema dai grandi numeri: un milione e mezzo di visitatori ogni anno tra aprile e settembre (quarto in Francia dopo Disney, Asterix e Futuroscope), fresco vincitore dell’Oscar mondiale dei parchi tematici, 40 milioni di euro di giro d’affari, tre alberghi, cinque spettacoli permanenti visibili con l’unico biglietto d’ingresso. Ma i numeri non dicono la cosa più importante: il Puy du Fou è un luogo in cui la gente scopre che si gode molto di più ammirando lo spettacolo della bellezza e dell’armonia e lasciandosi coinvolgere nell’avventura umana che di-vertendosi (nel senso etimologico) con lo stordimento ubriacante delle montagne russe. Non è un luogo di evasione, ma un luogo in cui "andare dentro". Dentro la storia di Francia, anzitutto, e quindi dentro la storia dell’Europa. Per vedere – dai tempi della fine dell’Impero romano – il ruolo civilizzatore del cristianesimo. E che un parco a tema riesca a far "passare" in modo così nitido, non ideologico, legato all’oggettività del dato storico, assolutamente non pedante e barboso (12mila ingressi in un sabato estivo medio non si fanno con le prediche…) questo elemento culturale e popolare ignorato dalle costituzioni e snobbato dal dibattito intellettuale – non solo in Francia – è, per dirla alla francese,
formidable. Ci deve essere sotto qualcosa. E infatti sotto, anzi, all’origine del Puy du Fou c’è una cosa ancora più grossa, culturalmente e fisicamente: si chiama Cinéscénie e di fronte alla sua storia, unica al mondo, anche il Grand Parc impallidisce. È il 1977, un giovane laureando dell’Ena, Philippe de Villiers, ha un’idea fissa e un talento nascosto. L’idea è quella di portare alla luce l’identità della Vandea, forgiata suo malgrado dal ferro e dal fuoco delle colonne infernali e del genocidio rivoluzionario e denegata dagli storici ufficiali. Il talento è quello di autore e sceneggiatore. Il «sogno di bambino» – come lo chiama oggi de Villiers – inizia con un testo buttato giù in pochi giorni (il protagonista è un giovane contadino, la storia della cui famiglia attraverserà le vicende europee sino all’ultima guerra mondiale) e con un castello diroccato tra vipere e sterpaglie; continua con il pellegrinare tra sindaci di paesini e presidenti di Pro Loco; balbetta tra incompetenze tecniche, colpi di scena tragicomici, incontri miracolosi. Fatto sta che il 16 giugno 1978 la Cinéscénie (inedito mix tra spazio e movimento) va in scena con 600 attori. Il primo anno la vedranno 80mila persone, sedute sull’erba attorno al castello. Oggi, 35 anni dopo, Cinéscénie significa il più grande spettacolo notturno del mondo su un’area di 23 ettari, una tribuna fissa da 14mila spettatori, 3200 persone in azione (2500 attori di cui 1200 in scena per ogni rappresentazione e 700 addetti ai servizi), 120 cavalieri, 150 getti d’acqua, 800 fuochi d’artificio. Quasi due ore di spettacolo con tecnologia e professionalità non solo di avanguardia ma di ricerca. Non è tutto, perché il più bello lo abbiamo lasciato alla fine: tutti (tutti) i 3200 coinvolti sono volontari, anzi
bénévoles, secondo la bella espressione francese. Si sono autobattezzati «
puyfolais», hanno tra i tre mesi e gli 86 anni, sono entrati nell’associazione che realizza la Cinéscénie e che è al vertice di tutta l’impresa solo se presentati da due padrini che garantiscono del loro impegno morale. Impegno che si concretizza anche nell’essere disponibili per almeno 15 delle 28 rappresentazioni annuali. E anche i dipendenti stipendiati del Grand Parc – dall’89 "figlio" della Cinéscénie per offrire attività diurne al pubblico crescente degli spettacoli serali – alla sera sono attori
bénévoles. Bisogna vederli, come è capitato a noi, nei
villages in cui indossano i costumi e si preparano a entrare in scena con una regia delicata e complessa. Gente del popolo, e proprio per questo non qualsiasi. Amici, anzitutto, trascinati da de Villiers e dai primi suoi compagni di avventura (sono ancora tutti là, con ruoli diversi). Gente che nel ’98 ha dato vita all’Accademia Junior, che forma artisti e tecnici specializzati nelle attività dei parchi a tema. Che ha aperto tre alberghi interni al Parco. Che genera un indotto di 3500 posti di lavoro nella regione. Che – attenzione! – non ha mai ricevuto né richiesto «un solo centesimo di denaro pubblico» e che quindi ha totalmente autofinanziato i 260 milioni di euro investiti dal 1977, di cui 9 solo quest’anno. L’associazione, inoltre, da sempre sostiene iniziative umanitarie e ambientali: oggi progetti contro l’esclusione sociale in Madagascar. Un monumento vivente alla sussidiarietà. De Villiers infatti è convinto che «la cultura ha bisogno di libertà più che di sovvenzioni» e non ha dubbi: «Lo stupefacente della nostra avventura consiste nel fatto che non sappiamo fin dove ci condurrà». E, in fondo, è questo il vero spettacolo.