Agorà

La guerra del secolo. Diserzione la paura e l’infamia

Alberto Monticone lunedì 9 giugno 2014
​La diserzione, cioè il fatto che un militare abbandoni il proprio reparto, è un reato punito in tutti gli eserciti con pene assai gravi, soprattutto se commesso in guerra al fronte. Nel corso del primo conflitto mondiale, nel quale grandi masse di uomini furono chiamate alle armi e per tre o quattro anni vennero impiegate in sanguinose battaglie, esso certamente assunse proporzioni rilevanti, molto diverse tuttavia nelle varie nazioni belligeranti e nel tempo. In numero maggiore furono i disertori appartenenti ai popoli soggetti all’Austria-Ungheria desiderosi di indipendenza e quelli agli ordini dello zar di Russia, confluiti in parte nei soviet; in entrambi i casi comunque la defezione o il passaggio al nemico avvennero prevalentemente nella fase critica per quelle potenze, tra il 1917 e il 1918. Molto contenuti furono i casi verificatisi nelle nazioni occidentali, nelle quali la coesione nazionale e il sentimento patrio erano più forti e che si consideravano aggredite dagli Imperi centrali. Per la Germania non sono noti dati certi, a causa della sconfitta e delle tormentate vicende del dopoguerra, ma la diserzione dovette riguardare solo ridottissimi casi isolati. In Italia alcuni fattori contribuirono a creare le condizioni per il verificarsi di un diffuso fenomeno di diserzione: la lunga neutralità, l’intervento effettuato con il rovesciamento dell’alleanza, la persistenza degli squilibri sociali tra il Nord e il Mezzogiorno, aggravati da una imponente emigrazione, la limitata estensione del diritto di voto ai cittadini, chiamati però alle armi, e un codice militare a misura di guerre brevi e di un esercito di modeste proporzioni. Furono però considerati diserzioni atti che in gran parte erano abbandono del reparto, cedimento delle armi o passaggio al nemico.Le forze armate italiane – esercito e marina – mobilitate nel corso della Grande Guerra assommarono a circa 5.500.000 uomini, cifra enorme per un Paese che nell’ultimo quindicennio aveva visto emigrare all’estero in cerca di lavoro circa un milione e mezzo di persone. Le denunce all’autorità giudiziaria per reati commessi furono ben 870.000, delle quali 470.000 per mancanza alla chiamata e 400.000 per diserzione dal corpo o per altri reati commessi sotto le armi. Circa 370.000 furono i renitenti alla leva che si trovavano all’estero e che non erano rientrati, perché ormai inseriti in quelle nazioni, pur mantenendo legami con la patria, mentre un certo numero di emigrati tornò e indossò l’uniforme. I processati per diserzione furono esattamente 189.425, dei quali 101.665 condannati a pene varie a seconda della gravità del reato: un dato impressionante che tuttavia va subito ridimensionato, perché solo 2.022 furono i condannati per essere passati al nemico, 6.635 per diserzione in presenza del nemico ossia da reparti in trincea e i restanti 93.308 per diserzione lontano dalle linee del fronte.Per comprendere il senso di questi dati ufficiali occorre tener presente che il periodo di maggior numero di diserzioni fu l’anno intercorso tra la primavera del 1917 e i primi mesi del 1918, quando cioè la prolungata, drammatica lotta di trincea, i ripetuti sforzi offensivi e le gravissime perdite in morti e feriti avevano messo a dura prova i combattenti, sui quali si abbatté nell’autunno del 1917 la sconfitta di Caporetto. In realtà l’esercito italiano si comportò saldamente, scarsi furono gli atti di ribellione ed è stato ampiamente dimostrato dagli storici che il successo dell’offensiva austro-tedesca che provocò la ritirata al Piave non fu dovuto alla mancata resistenza dei soldati, come venne allora ritenuto e in seguito politicamente sfruttato, ma ad una serie di errori dei comandi italiani e alla supremazia degli avversari.La convinzione delle autorità militari, che i limitati episodi di mancata esecuzione degli ordini, di insofferenza per i sacrifici richiesti e di rifiuto di combattere fossero segnali di una crisi profonda e di scarso affidamento, generati dalla viltà o da ideologie antimilitari, andò gradatamente crescendo dai primi mesi di guerra sino appunto al 1917, trasformandosi in più generale sospetto e contribuendo a inasprire gli ordini repressivi e a provocare un alto numero di deferimenti ai tribunali militari.Se è vero che episodi di passaggio al nemico, anche in gruppo, si verificarono già nei primi mesi di guerra e poi nel 1916 in punti cruciali del fronte – ad esempio la tormentata area del Col di Lana e il Carso – i più numerosi avvennero nella fase centrale della nostra guerra. Nonostante le condanne alla fucilazione nella schiena, pena ignominiosa prevista per la defezione al nemico, siano state pronunciate con argomentazioni in punto di diritto e talora avvalorate da sicure testimonianze, resta il dubbio che non tutti coloro che si erano dati prigionieri lo avessero progettato e fatto volontariamente, dal momento che era assai difficile appurare le esatte circostanze e in assenza degli imputati ormai in mano nemica. Tale dubbio è avvalorato dal fatto che verso i prigionieri catturati nel corso della battaglia di Caporetto e della conseguente ritirata si diffuse in ambienti militari e politici la falsa opinione che essi avessero ceduto le armi senza combattere e, fatto gravissimo, si ostacolarono con precise disposizioni governative i soccorsi destinati ad alleviare le sofferenze della loro prigionia.Si deve riconoscere che gli stessi tribunali militari pronunciarono una consistente percentuale di assoluzioni degli imputati di diserzione, circa il 24 % nei processi per il passaggio al nemico, il 33% in quelli in presenza del nemico e il 38 % in quelli per abbandono del reparto. Qualche esempio aiuta a comprendere come la realtà del reato, pur in sé gravissimo specialmente se compiuto con passaggio al nemico, fosse però molto diversa dal mito che si era andato diffondendo intorno alla diserzione, mito che faceva dimenticare la drammatica condizione dei combattenti e le responsabilità non ad essi imputabili.Qualche esempio, fra i tantissimi documentati negli atti dei tribunali di guerra, può aiutare a rendersi conto del contesto del fenomeno. Nel dicembre 1915 un soldato del 26° fanteria venne fucilato per avere disertato dal suo reparto in linea nel Goriziano: aveva girovagato per qualche giorno e ai carabinieri che lo arrestarono aveva giustificato la sua assenza con dolori alle gambe, non riconosciuti dal medico del reparto. Era ammogliato, incensurato e analfabeta ed aveva buoni precedenti nel suo comportamento militare. Il 12 ottobre 1917 a un soldato contadino, incensurato, che era stato mandato in licenza nel gennaio precedente, che era però rimasto a casa diversi mesi e si era ripresentato al reparto nella Val Boite il 6 ottobre, venne inflitto l’ergastolo. Sentenza capitale fu invece quella pronunciata nell’agosto 1917 contro un soldato, minatore già emigrato in Germania, fuggito dalla seconda linea con esplicita volontà di non tornarvi, duramente critico contro il governo italiano che aveva voluto la guerra e perciò considerato un sovversivo. Il 2 maggio del 1918 a un soldato del 23° reparto d’assalto, carrettiere, analfabeta, andato in licenza il 5 marzo con l’obbligo di rientro il 25, presentatosi spontaneamente il 5 aprile con dieci giorni di ritardo, perché voleva rivedere un fratello, venne inflitto l’ergastolo per concessione di attenuanti generiche: quel militare aveva due fratelli al fronte, uno dei quali subì una grave ferita. Anche più breve fu il ritardo nel rientrare dalla licenza al proprio reparto in prima linea di un soldato del 14° fanteria: il suo permesso scadeva il 28 giugno 1918 ed egli si presentò il 2 luglio, con quattro giorni di ritardo – in realtà il foglio di licenza poteva lasciare intendere che avesse altri due giorni –; scampò la fucilazione per via del ritorno spontaneo e della brevità dell’assenza, ma venne condannato all’ergastolo.Dopo la ritirata al Piave le diserzioni al nemico non costituirono più oggetto di particolare attenzione da parte delle autorità militari italiane e furono rarissimi i casi di condanna: la resistenza contro l’invasore era motivazione molto più forte nell’impegno dei combattenti, le ragioni dei sacrifici e dei rischi pur sempre grandissimi più chiare e il darsi prigioniero privo di attrattiva di una sorte migliore. Il permanere tuttavia di un consistente numero di casi di assenze dalle linee o dalle immediate retrovie, oggetto di procedimenti giudiziari, attesta soprattutto, almeno sino alla battaglia del giugno che vide il successo italiano, la continuità della diffidenza delle autorità nella capacità di tenuta dell’esercito.
Le condanne a morte per diserzione furono in totale circa 3.600, delle quali 391 effettivamente eseguite e 2.900 in contumacia. I numerosi diari di italiani prigionieri in Austria-Ungheria e in Germania pubblicati sino a oggi non contengono notizie di disertori: la loro presenza sarebbe stata motivo di rabbia in coloro che hanno descritto dettagliatamente le tristissime condizioni dei campi di prigionia e che hanno raccontato la solidarietà e segnalato eroismi e difetti dei loro compagni di sventura. Né è da credere che ai disertori gli austriaci e i tedeschi abbiano riservato un trattamento speciale: non erano ufficiali o persone al corrente di piani strategici o di altre informazioni rilevanti, da compensare con collocazione in luoghi separati e protetti. A Mauthausen e a Sigmundherberg, solo per citare i due campi più famosi in territorio austriaco, dei quali si hanno relazioni precise, avrebbero dovuto essere notati; in quasi tutti gli altri le condizioni erano anche più precarie e non sarebbe stato comunque facile destinare a qualche fortezza o prigione particolare l’imponente numero di italiani condannati in contumacia per quel reato infamante. Si aggiunga che analogamente, dalle deposizioni degli ufficiali italiani caduti in mano nemica nella battaglia di Caporetto, interrogati al rientro in patria da una apposita commissione d’inchiesta, venne sfatato il sospetto che i soldati ai loro comandi si fossero facilmente arresi.