Partita senza barriere. Un calcio vero alla disabilità
I ragazzi e i volontari di Edu In-forma(zione) in campo durante un allenamento
È finita con una vittoria, anche se il risultato finale è un pareggio. Poco importa: domenica, a Castel San Pietro, hanno vinto tutti. Pareggiando, hanno vinto coloro che sono andati in campo, e con loro famigliari, volontari e simpatizzanti che, con i calciatori, al termine della partita hanno festeggiato sedendosi a tavola in 165. Perché il derby è finito così, a pranzo. Quale derby? Quello dell’inclusione: da una parte i ragazzi di Edu in forma(zione) Bologna, dall’altra quelli della Asca di Savignano sul Rubicone; ma ragionare in termini di contrapposizione è quanto di più fuorviante possa esserci in questa storia. La partita è quella che, sul terreno di calcio a cinque del centro sportivo Casatorre, ha visto scendere in campo ragazzi affetti da disabilità intellettive di diverso genere e in gradi anche piuttosto severi: autismo, iperattività, sindrome di Down, ritardo mentale e disagio sociale. Ragazzi ai quali sovente lo sport è negato e non hanno familiarità con l’agonismo. Questa volta invece i protagonisti sono stati loro, calciando la disabilità e rovesciando ogni schema preconcetto.
Ad organizzare la giornata è stata l’associazione sportiva dilettantistica Edu In-forma(zione)-scuola calcio Renzo Ceré, che ha festeggiato il proprio primo compleanno a chiusura della settimana dedicata alla consapevolezza sull’autismo e cominciata domenica 2 aprile con la “giornata blu”. Blu sono anche le maglie della squadra bolognese che, partita con quattro ragazzi, oggi ne conta sedici dai 6 ai 18 anni, in un rapporto uno a uno con gli educatori: «Non abbiamo inventato nulla - si schermisce Davide Bucci, presidente della associazione - e anzi noi per primi ci siamo ispirati alla preesistente esperienza di Savignano, nata dall’idea di Massimo Buratti, per realizzare il nostro progetto. Quello che conta però, un po’ dappertutto, è sempre cominciare, muovere i primi passi, dimostrare che certe esperienze sono possibili». Cinque i soci fondatori di Edu Informa( zione), fra i quali Giovanni Grassi, peraltro presidente della delegazione provinciale bolognese dell’Aiac, l’associazione allenatori, che ha sposato l’iniziativa.
Non a caso, a breve uscirà anche il bando del primo corso Aiac-Figc dedicato alla pratica sportiva ed in particolare del calcio per diversamente abili, che sarà rivolto agli allenatori di calcio, agli educatori, agli studenti universitari di scienze motorie o scienze della formazione e si svolgerà entro la fine dell’anno. Del resto, un recente studio della Nielsen, commissionato dal comitato paralimpico spagnolo, ha preso in esame anche l’Italia illustrando che l’81% del campione della nostra popolazione un dato al di sopra della media europea - dichiara di conoscere lo sport paralimpico e, per il 21%, di mostrare interesse per le varie discipline. Il punto è proprio questo: quando si parla di sport e disabilità, le prime forme riconosciute sono quelle motorie e sensoriali, per le quali in effetti nel nostro paese non mancano realtà capaci di offrire possibilità sportive che, anche gra- zie alle tecnologie, nella loro straordinarietà appaiono ordinarie.
Diverso e più complesso è il caso della disabilità intellettiva, dove entrano in gioco dinamiche relazionali che rendono l’inclusione un traguardo ancora lontano. Ecco perché la formazione di tecnici e volontari, unita al fondamentale coinvolgimento delle Asl e dei servizi sociali, diventa decisiva. A Castel San Pietro, non a caso, in campo nei due giorni di allenamento settimanali assieme a Luis, Tcham, Michele e gli altri ragazzi, oltre ai volontari c’è sempre Elenia Poli, psicologa e consulente familiare specializzata in autismo. È lei a raccontare come ancora oggi lo stigma sulla disabilità intellettiva sia forte: «I dati relativi al deficit mentale dicono che si tratta di una realtà in costante aumento, eppure restano atteggiamenti di netta chiusura. Le famiglie, una volta accettate le problematiche dei figli, percorso già questo faticoso, si trovano di fronte ad un ambiente che non aiuta il miglioramento della qualità della vita dei ragazzi e, al contrario, rende l’integrazione più complessa, per non dire impossibile. A questo si aggiunge che spesso le iniziative vengono lasciate ai singoli e non arrivano da programmi strutturati, un discorso che parte dalle scuole e si riverbera sul resto della quotidianità».
Chi ha figli in età scolare sa di cosa si tratta, basti pensare alle ore di educazione fisica, nelle quali i ragazzi con disabilità intellettive si trovano di frequente mal sopportati perché tempo, pazienza e pratica non sono dalla loro parte. Ma la disabilità non è contagiosa: «Per alcuni dei nostri ragazzi, già entrare a fare parte di un gruppo è un grandissimo risultato, per questo serve una comunicazione accogliente ed empatica, con rituali propri. La presenza in campo anche di normodotati è poi un’occasione in più, e a farne tesoro sono soprattutto coloro che disabili non sono. Perché conoscere e capire è la base dell’integrazione».