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Classica. Il direttore Gamba: «Il Requiem e la Tosca, la grande musica per i giovani»

Giacomo Gambassi giovedì 31 ottobre 2024

Il direttore Michele Gamba con l'Orchestra Sinfonica di Milano

Non vale per Michele Gamba l’adagio evangelico “nessuno è profeta in patria”. Lui, direttore d’orchestra 41enne d’origini milanesi, è ormai di casa sui podi della città. Al teatro alla Scala, anzitutto. E in questi giorni nell’auditorium di largo Mahler davanti all’Orchestra Sinfonica di Milano - ex laVerdi - dove debutta nel Requiem di Giuseppe Verdi. Musica che incarna lo spirito della città: composta per la morte di Alessandro Manzoni ed eseguita per la prima volta nella chiesa di San Marco nel 1874. Una partitura a cui Gamba si approccia «con rispetto e intimità, come quando si entra in chiesa», racconta. Perché «è una Messa. E di fronte a una celebrazione non sono consentiti eccessi. Ricordo bene quanto mi veniva detto al catechismo in parrocchia. L’assemblea liturgica non può essere sopra le righe. Vale anche per ciò che ha scritto Verdi».

L'Orchestra e il Coro Sinfonici di Milano - Angelica Concari

Il 31 ottobre il primo concerto nel 150 anniversario del Requiem con un cast che annovera Maria Teresa Leva (soprano), Deniz Uzun (mezzosoprano), Francesco Demuro (tenore) e Adolfo Corrado (basso) e con il Coro Sinfonico di Milano. Venerdì 1 novembre alle 20 e domenica 3 novembre alle 16 le altre due esecuzioni, a cavallo fra la solennità dei Santi e la commemorazione dei defunti. «Un incrocio di date che invita ancora di più al raccoglimento - aggiunge Gamba -. È una felice tradizione dell’Orchestra Sinfonica quella di proporre questo “monumento” musicale a cadenza regolare. L’ho suonato più volte al pianoforte quando ero assistente di Antonio Pappano e Daniel Barenboim, ma non l’avevo mai diretto prima d’ora. E ci si sente sempre inadeguati quando sul leggio si hanno simili capolavori».

Maestro, c’è bisogno di una sorta di fedeltà religiosa nei confronti del Requiem?

«Guai a considerarlo come una drammatizzazione della morte. È vero che, ad esempio, il Dies irae può essere simile a un grido. Ma al di là di grandi momenti michelangioleschi, chiamiamoli così, si tratta di una musica spirituale e sofferta, segnata dal dolore. Perciò caricarla in termini operistici può magari aiutare a raccogliere più “clic” o “like” sui social, ma tradisce l’essenza della partitura. Penso a quelle sei “P”, un pianissimo quasi impossibile da suonare che scongiura ogni gigantismo a effetto».

Una partitura legata alla città?

«Verdi la scrive in onore di Manzoni. Due pilastri della milanesità e della costruzione dell'identità nazionale nell'Italia nascente. Eppure, benché entrambi orientati a una tensione verso il bene comune, erano per certi versi distanti, a cominciare dalla dimensione religiosa: Manzoni, l’uomo della fiducia nella Provvidenza; Verdi, con una visione fra agnosticismo e fede quasi laica».

Milano l’ha riaccolta come direttore.

«Sono grato alla città. Quasi incredulo. Ho vissuto gli anni della formazione, tra i 20 e i 30, fuori della mia terra: a Londra, a Berlino, a Vienna, ad Amburgo. Da quando ho iniziato il rapporto con la Scala, mi riempie di gioia poter lavorare a casa. Come accade adesso con l’Orchestra Sinfonica».

Al Piermarini torna con Tosca fra marzo e aprile 2025.

«Mi hanno già affidato titoli impegnativi: Rigoletto, Médée, Turandot la scorsa estate. Ne sono felice. L’orchestra della Scala ha una paletta sonora infinita. Si tratta di cercare insieme gli spunti che magari sono già parte del Dna della formazione».

Lei è un giovane direttore. La musica classica è lontana dai giovani?

«La distanza si è creata, ma va colmata. Nell’era della mediazione virtuale, occorre far comprendere l’importanza della musica colta dal vivo: colta non nel senso che sia per pochi, ma che deve essere coltivata col tempo. Poi l’orchestra è metafora della vita. Pensiamo al solo strumento che vince sull’insieme: è un “caso” di tutela delle minoranze. Poi ritengo sia fondamentale parlare con il pubblico, dialogare, presentare il repertorio o il nostro lavoro: come fa in modo egregio Emmanuel Tjeknavorian, neo-direttore musicale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, molto attivo nel mondo dei media».

Pianista, docente al Conservatorio, ma ha abbandonato tutto per la bacchetta. Perché?

«Ho sempre desiderato dirigere. Da bambino ascoltavo le incisioni di Claudio Abbado o la neonata laVerdi con Riccardo Chailly. Mi interessavano Mahler e Beethoven. La Scuola di musica di Fiesole che è un’oasi straordinaria mi ha fatto amare la musica da camera. Ero in una classe di pianoforte meravigliosa. Poi sono volato a Londra per perfezionarmi. Ma quando sono entrato in teatro con Pappano, c’è stato come un ritorno alle origini e ho avuto le prime esperienze sul podio. La direzione d’orchestra ha ancora uno stile estremamente machista: c’è sempre un’esibizione di muscoli e, se io esibisco muscoli, perdo… Per questo tutto è avvenuto in modo abbastanza naturale e non cercato».

Musica sinfonica oppure opera: ha una predilezione?

«Con Barenboim ho lavorato in ambito prevalentemente sinfonico; con Pappano in quello operistico. Sono legato, da un lato, alla seconda scuola di Vienna e, dall’altro, alla musica da camera al centro del mio percorso di studi. L’opera è ogni volta una scoperta perché il teatro musicale offre stimoli interessantissimi che si riverberano su tutte le altre attività musicali».