Intervista. Dino Risi, sorpassando fino all'ultimo respiro
"Il sorpasso", memorabile film di Dino Risi
Nella nobile dinastia cinematografica dei Risi, la piaggeria è bandita, ma non si può non essere grati a Marco Risi per aver scritto Forte respiro rapido. La mia vita con Dino Risi( Mondadori - Strade Blu. Pagine 253. Euro 18,00). Uno scrigno prezioso e sterminato di ricordi visivi e di aneddoti (ci vorrebbero tre pagine per raccontarli tutti, ndr) interamente dedicato alla figura di suo padre. Il regista Dino Risi, nato (nel 1916) e cresciuto a Milano e diventato, come quasi tutti i cineasti della sua generazione, romano d’adozione (è morto nella capitale nel 2008).
Un libro che è un raggio di sole per il lettore, specie in questo tempo oscuro, da “cuori di tenebra” , come quello che stiamo vivendo. Citazione che avrebbe gradito Dino Risi, che, per definire il suo mestiere di cineasta («con alle spalle una cinquantina di film») si appellava a Conrad che soleva ripetere: «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?». Sua moglie, la svizzera Claudia Mosca, la madre dei loro due figli, i registi Claudio (classe 1948) e Marco (1951), la lasciò un giorno all’improvviso per andare a vivere da solo nel residence Aldrovandi. La sua dimensione domestica ideale: «Quello che gli piaceva della vita d’albergo era la provvisorietà, niente oggetti personali, solo un paio di quadri di Schifano e i libri letti che poi regalava a Luigi, il portiere», racconta Marco Risi del padre, genio assoluto di quel filone italico che, dopo il neorealismo, è stato l’altro genere unico e irripetibile, la commedia all’italiana.
Dino e Marco Risi - Archivio
Uno sguardo originale fin dagli esordi quello di Risi senior, giornalista e umorista per caso, al Bertoldo dove lo portò il compagno di liceo (il Berchet) Walter Molino («lo pagavano 30 lire a battuta »). Laurea in medicina, ma spaventato dal tirocinio in Psichiatria, «vissuto come un incubo al primo ingresso in un manicomio», ripiegò impiegandosi nella fabbrica dei sogni di celluloide. «Stanco di curare gente che non guariva mi sono dato al cinema», ha scritto nella sua autobiografia I miei Mostri (Mondadori) ora integrata dal tenero, filiale e profondissimo atto d’amore Forte respiro rapido «le ultime parole annotate sul suo taccuino, prima di morire». Un romanzo famigliare (pronto per una trasposizione cinematografica) in cui come sostiene il suo amato Maupassant «i pensieri corrono come mosche in una bottiglia». Marco ha ereditato e custodito questo flusso di pensieri liberi che riaffiorano dolci e più nostalgici che mai, specie ora, nelle giornate vuote e silenti, come le strade di Roma. Strade deserte e abbandonate come quelle raccontate da Marco Risi nel suo ultimo film tv L’Aquila grandi speranze. «A L’Aquila dopo il terremoto stanno ricostruendo, ora ci sarà da ricostruire un intero Paese crollato sotto i bombardamenti di questo mostro invisibile che è il Coronavirus». Scenari bellici. E tra i tanti aforismi di Dino Risi si trova uno che fa pensare a questo tempo malato e mortale: «La cosa più bella della guerra è il dopoguerra ». «Come avrebbe reagito a questo coprifuoco forzato? Per lui sarebbe cambiato poco. Gli sarebbe mancata solo la cena al suo ristorantino, la Scala, che non c’è più. Sulle regole da seguire nessun problema, fin da bambino la madre lo martellava: “Lavati le mani Dino”. Per i baci e gli abbracci idem, diffidava del contatto fisico, anche con noi di casa. Quando avevo certi slanci affettuosi – sorride – mi diceva: “Dai Marco, non sono cose che si fanno, su”». Del resto Marco era stato nominato dal padre il saggio di casa Risi. «Fin da piccolo mi chiamava affettuosamente “il vecchietto”. Lui sosteneva che “i figli sono dei genitori fino a 6 anni”. Con ciò, ci ha costretti a invertire i ruoli e io da figlio minore mi sono responsabilizzato diventando ben presto adulto. E questo, mi ha confessato la sua compagna Leontine, che a volte lo metteva quasi in soggezione nei miei confronti... Papà ha conservato fino alla fine lo spirito del- l’eterno ragazzo, non ha mai smesso di trasgredire. Una delle sue trasgressioni? Beh la racconto anche nel libro, si divertiva ad andare al supermercato e rubare una tavoletta di cioccolata. Io lo redarguivo: ma papà, pensa se ti scoprono e finisci sui giornali… ma che figura ci fai?. Lui ridacchiava di gusto, proprio come un bambino beccato... a rubare la cioccolata».
Un guascone con la faccia e la chioma candida dell’Avvocato (era il sosia di Gianni Agnelli, decine le gag in merito) con un fratello intellettuale, Nelo Risi: uomo di cinema, ma soprattutto poeta. «Anche lo zio Nelo in quanto figlio di vedova di medico si era laureato in medicina, salvo poi darsi al cinema. Ho cominciato facendogli da aiuto regista in Una stagione all’inferno. Dino e Nelo erano talmente diversi che io credo di aver preso un po’ da tutti e due. Papà cominciò a leggere le poesie dello zio solo verso la fine delle rispettive vite, in cui avevano riscoperto un bellissimo rapporto di fraterna amicizia. Pranzavano insieme nella casa di Nelo e di sua moglie, Edith Bruck (la zia Edith, scrittrice ebrea sopravvissuta ad Auschwitz) in via del Babuino. E un giorno papà confessò: “Ma lo sapete che ho letto le poesie di Nelo... sono davvero belle”. E mio zio a sua volta ci disse: “Ma lo sapete che Dino per la prima volta mi ha detto bravo...”, lo raccontavano entrambi con commozione». Una vita a volte difficile, sorpassando fino all’ultimo respiro. «Papà nella vita di tutti i giorni era l’esuberante Bruno Cortona (Gassman) de Il sorpassoanche nei piccoli gesti, ma si sentiva molto affine pure all’appartato Roberto Mariani ( Trintignant). Amava definirsi un “melancomico”. Il personaggio di Gassman glie l’avevano ispirato due amici, due personaggi incredibili e dei viaggi in macchina con loro, a “200 all’ora”, in cui papà si era spaventato a morte. I due folli mattatori erano Gigi Martello, antifascista scampato a Mauthausen, produttore, che era capace di dirgli: “Dino andiamo a prendere le sigarette in Svizzera e poi da Lugano si va a cena dal principe del Liechtenstein”, dove invece di venire scacciati, Gigi entrava sfacciatamente a palazzo mostrando alle guardie la tessera del tram spacciata per quella da giornalista. L’altro era Pio Angeletti, direttore di produzione, che pur di arrivare in tempo alla partita della Roma mise a repentaglio l’incolumità di mio padre sfrecciando fino allo stadio Olimpico per il fischio d’inizio della partita».
Sorpassi esistenziali sempre al limite. Il sorpasso è un film culto, anche per gli americani che lo considerano il primo esempio di “road movie”. «Un film fondamentale nella carriera di Dino Risi, e profondamente significativo dal punto di vista personale: la morte di Roberto-Trintignant per mio padre sanciva anche la fine dell’età dell’innocenza e si apriva quella del cinismo. Non a caso, esattamente dieci anni dopo, nel ’71, gira In nome del popolo italiano in cui il commendator Santenocito (Gassman) con vent’anni d’anticipo preconizza lo sfascio e la crisi morale di Tangentopoli». In quel film, il giudice Bonifazi è Ugo Tognazzi e dieci anni dopoLa marcia su Roma Dino Risi ricostituisce quella coppia di Mostri del set. «Ugo e Vittorio uniti anche fuori, sopraffatti dallo stesso triste destino, la depressione – continua Marco Risi – . Era uno spasso cenare con Tognazzi che aveva solo un difetto: soffriva per il successo dei colleghi, specie quello di Nino Manfredi. Una sera a una festa sussurrò: “Vedi quello lì? Solo lui è più bravo di me, è il più bravo di tutti”, indicava Alberto Sordi. Aveva ragione. Un gigante Alberto che ragazzino mi prese come assistente nel suo film Finché c’è guerra c’è speranza. Sordi mi ha fatto ridere tanto, ma anche commosso: un giorno che ero in auto alla radio lo ascoltai rapito: recitava delle poesie di papa Wojtyla. Una lettura magistrale, senza enfasi e senza nessuna inflessione romana, straordinaria. Lo raccontai a Gassman che mi rispose: “Mi sa’ che ti sbagli”». Sordi e Gassman, le maschere per eccellenza di quel cinismo che è la cifra del cinema di suo padre, di Mario Monicelli e in parte anche di Ettore Scola. «Vero. La loro è stata una sana e stimolante competizione di cui ha beneficiato tutto il nostro cinema. Risi e Monicelli erano un po’ Bartali e Coppi della commedia all’italiana. Scola ha usato il cinismo in alcuni film, ma il suo approccio era più politico, più cerebrale, tant’è che mio padre quando sfoggiavo una certa dialettica me lo faceva puntualmente notare con una delle sue sagaci battute: “Marco che fai, scoleggi?”. Stilettate taglienti che non risparmiavano niente e nessuno, da Antonioni dileggiato anche ne Il sorpasso al Visconti che «da numero 1 assoluto – diceva papà – con l’arrivo di Strehler e Fellini era diventato il numero due in teatro e al cinema».
L’amico Fellini, il regista da Oscar, mentre Risi l’ha solo sfiorata la statuetta, con Profumo di donna, candidato per la miglior sceneggiatura. «Deluso? Ma a lui i premi non interessavano. Fu felice per il Leone alla carriera ma quando Veltroni voleva organizzare una festona per i suoi 90 anni papà, rispose cordialmente: “Non ci penso neanche”. Rifuggiva le cerimonie, al massimo andava sul lago di Como al compleanno di una cugina centenaria... è morta a 110 anni ». La morte lo colse vivo, come voleva Marcello Marchesi, e sulla sua tomba non è riuscito a scrivere l’epitaffio «nato a Milano sepolto a Waterloo », ma forse ha ritrovato quel sentiero dell’infanzia che come Checov gli faceva dire: «Sono stato felice una volta sola, sotto un ombrellino».