«Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo». Queste parole, pronunciate da
papa Francesco al Convegno ecclesiale di Firenze, offrono un prezioso suggerimento per guardare al grande travaglio che caratterizza questo inizio di Terzo Millennio. Se infatti per il cristiano, e generalmente per l’uomo religioso, è chiara la meta, la vita eterna verso la quale siamo fin da ora incamminati, nessuno può disporre in anticipo dei passi che a essa conducono. Non possediamo il futuro. Per questo ci abbandoniamo con ragionevole fede a Dio, che ne è il padrone, aderendo, attraverso le circostanze e i rapporti, al Suo disegno di bene per l’intera umanità. Questa lettura religiosa della storia, domanda un forte senso del passato, consente una sobria capacità critica del presente, e permette di guardare al futuro con una speranza affidabile. Uno degli aspetti più vistosi del «cambiamento d’epoca» di cui parla il Papa è il tumultuoso processo di mescolamento di popoli e culture in cui oggi siamo immersi. Questo fenomeno non è certo una novità nella storia umana: basti pensare a che cosa abbia significato, per limitarci al nostro continente, la migrazione dei popoli germanici per l’Impero romano. Ma l’evento è probabilmente inedito nelle sue dimensioni e nella rapidità con cui si sta imponendo. Secondo l’ultimo
International Migration Report delle Nazioni Unite (2015), dall’inizio del nuovo millennio il numero dei migranti internazionali ha continuato a crescere, passando dai 173 milioni del 2000 ai 244 milioni del 2015. Per questo, afferma il rapporto, «nel sempre più interconnesso mondo odierno le migrazioni internazionali sono diventate una realtà che tocca quasi ogni angolo del globo, spesso rendendo obsoleta la distinzione tra Paesi d’origine, Paesi di transito e Paesi d’arrivo».
Con quali parole definire un fenomeno di tale portata? Negli ultimi decenni si è parlato molto di globalizzazione, un concetto che sicuramente esprime bene la moltiplicazione degli scambi, materiali e simbolici, a livello planetario, ma che resta molto connotato in senso economico, tanto più se rischia di significare una «omogeneizzazione brutale delle differenze». Per questo, ormai più di dieci anni orsono, proposi di descrivere questo processo con l’'ardita metafora' del «meticciato di civiltà e culture», da intendere come «mescolanza di culture e fatti spirituali che si producono quando civiltà diverse entrano in contatto». La scelta di questa categoria ebbe in me il carattere di un’inventio intuitiva, provocata dalla domanda di un giornalista. Non è nata dallo studio della letteratura in proposito, ma piuttosto dai miei viaggi in Messico e, in particolare, dalla considerazione del carattere fortemente meticcio del popolo messicano. Essa nasceva anche dall’insoddisfazione che l’impiego di termini tradizionali come identità, dialogo, integrazione, multiculturalità e persino interculturalità continuava a produrre in me di fronte alla poliformità del processo. I processi storici sono anzitutto dell’ordine degli accadimenti e pertanto ultimamente imprevedibili e non dominabili. Tuttavia, per l’interazione e la durata dei fattori da cui sono costituiti, non solo possono essere sempre meglio conosciuti, ma anche, entro limiti non certo stabiliti a priori, orientati. Anche il processo di meticciato di civiltà e di culture, pur nel suo turbolento e spesso violento attuarsi, chiede di essere affrontato con questa positiva attitudine critica. Essa poggia ultimamente su un duplice fermo convincimento. Anzitutto l’aspirazione all’universalità e all’unità costitutiva del cuore dell’uomo, che è fatto per la verità. L’esperienza umana, comune a tutti gli uomini di ogni tempo e cultura, ne è la conferma più lampante. Ogni uomo e ogni donna, ogni giorno, vive di affetti, di lavoro e di riposo. Questi sono i simboli di un linguaggio dinamico universale che non cessa di affratellare la famiglia umana. E ne sappiamo bene la ragione. Essa, ed è questo il secondo convincimento, risiede nel fatto che un Padre ha aperto la sua dimora creando tutta l’umanità e, amorevolmente raccogliendoci da ogni dove, ci sta riportando nella sua casa dalle porte aperte. Dio guida la storia con un preciso disegno, cui le movenze contraddittorie della nostra libertà e la potenza della libertà del maligno non possono, alla fine, resistere. Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati, li vuole 'figli nel Figlio'. L’umana avventura della libertà di ogni singolo e di ogni popolo non fa che mostrare la profondità dell’amore di Dio che ha scelto, per comunicarsi, di passare, con la croce di Cristo, attraverso la libertà finita e il suo continuo vagabondare. Questo stato di cose ci chiama alla responsabilità del faticoso lavoro di lettura delle circostanze storiche. Una lettura che non può mai evitare l’autoesposizione testimoniale. Religioni e culture, nella loro insuperabile polarità di universale e di particolare, stanno dentro questo disegno unitario. Anzi, lo esaltano nel gioco delle differenze che, per la potenza dell’evento trinitario, si danno ultimamente solo nell’unità. Per un cristiano l’unità, e perciò l’universalità, è l’alfa e l’omega della storia perché non teme la differenza, dal momento che essa vive in modo perfetto e non contraddittorio nello stesso supremo fondamento (Trinità).