Antropologia. Dietro gli schermi l'imbarazzo scolora
Una delle sculture di Aron Demetz, protagonista di una personale al Marca di Catanzaro fino al 31 marzo
Anticipiamo un brano del capitolo 'Faccia' dal volume Tradire i sentimenti in uscita per Einaudi (pagine 166, euro 12,00). L’autore, l’antopologo Franco La Cecla, traccia una mappa dell’evoluzione delle espressioni umane della vergogna, come rossori, lacrime e imbarazzi, brividi, pelle d’oca. Accade che noi tradiamo i nostri sentimeni, ma anche essi ci tradiscono, ci spiazzano. Secondo l’autore nella nostra società c’è stata un’ascesa dell’imbarazzo (basato sulle convenzioni) a discapito della vergogna che ha più a che fare con la morale. Sulla scorta di una riflessione che parte da Darwin e Freud il percorso di La Cecla, in 30 capitoletti, passa per situazioni della vita quotidiana come l’ascensore, i complimenti, le lacrime, l’elemosina. Dà conto dell’espressione di sentimenti in varie culture. E si affida a personaggi e autori della letteratura come Gatsby, Lord Jim, Lawrence d’Arabia. Con una consonanza tra Bob Dylan e Dante Alighieri in nome del 'Trascolorare'.
In un racconto di João Guimarães Rosa, Lo specchio, un uomo comincia a disprezzarsi: sente questa profonda repulsione per se stesso quando passa di fronte a uno specchio. Decide allora di cominciare una terapia proprio attraverso il proprio riflesso. Si guarda allo specchio e cerca di eliminare tutte le espressioni che lo fanno somigliare a un animale, quell’aria feroce o furtiva, quel profilo lupesco. Poi passa all’eliminazione delle somiglianze, è un processo che richiede molto tempo. Sempre allo specchio smette di somigliare al padre, alla madre, ai parenti, agli amici. Si tratta poi di eliminare tutte le espressioni, ira, collera, ma anche godimento, soddisfazione: le emozioni vengono cancellate a una a una. A un certo punto, quando anche questa operazione è in fase avanzata, ha un trasalimento, un momento di terrore, e smette di guardarsi allo specchio. Per molto tempo farà come se si fosse dimenticato del proprio riflesso e quindi di sé. Vive senza riflesso. Un giorno, quando meno se l’aspetta, s’imbatte per strada in uno specchio e passandovi davanti non vede nulla, più nulla. João Guimarães Rosa non spiega cosa l’apologo voglia dirci, ma sta a noi indovinare. C’è l’imbarazzo, il disprezzo, il rifiuto di se stessi: si perdono tutti i connotati, tutto l’appoggio delle emozioni, e ci si ritrova nel nulla da cui siamo costituiti. Senza gli sguardi esterni, senza il nostro riflesso è come se il nostro corpo si sciogliesse, perdesse consistenza. Sono gli altri a fare da paratia al nostro processo di disintegrazione. La verità dell’imbarazzo a volte è insostenibile perché tutto ciò che abbiamo pensato di costruire viene demolito in un istante. E non bastano le rughe d’espressione, l’imitazione introiettata dei nostri modelli, la rassegna di riflessi di noi stessi sui profili dei social. No, non bastano. Nella nostra cultura la maschera dietro cui perdiamo la faccia è terribilmente presente. Non tanto le mascherine che da qualche tempo siamo costretti a indossare per la nostra salute, ma gli schermi che si sono sovrapposti ai nostri volti trasformandosi in filtri e reti che ci impediscono il vero faccia a faccia. Karl Popper nel 1977 così scriveva: «Noi possiamo concepire una società nella quale gli uomini praticamente non si incontrano mai faccia a faccia, nella quale tutte le attività sono svolte da individui completamente isolati che comunicano tra loro per mezzo di lettere dattiloscritte e di telegrammi e che vanno in giro in automobili chiuse (la fecondazione artificiale consentirebbe anche la riproduzione senza la componente personale). Siffatta società fittizia potrebbe essere chiamata 'società completamente a- stratta o depersonalizzata'. Ora, il punto interessante è che la nostra società moderna assomiglia in molti dei suoi aspetti a siffatta società completamente astratta». La scomparsa di una parte espressiva del nostro volto, coperta da una mascherina igienica, era stata abilmente preparata da una chirurgia plastica operata da un training digitale. Ci dà davvero fastidio non mostrare più la nostra faccia? Il fatto che non ci dia fastidio o che si tratti solo di un leggero fastidio non è un sintomo di qualcosa di più profondo? Crediamo di poter esprimere tutto solo con gli occhi, tenendo le guance ben coperte e nascoste, e la bocca rinchiusa tra le garze? Certo, siamo stati rispettosi, ma in fin dei conti è stato facile accettare la rinunzia. Non avevamo già capito che su Skype qualunque tipo di irregolarità delle nostre espressioni viene attutita? Già il guardarsi negli occhi su Skype è impossibile, ed è impossibile che si verifichi quella improvvida imbarazzante opportunità di cercare nelle altrui pupille le tracce della propria autenticità... Ma com’è scomodo l’incontro dal vivo, poco gestibile! E invece la comodità dell’online che consente di portare avanti relazioni altrimenti un po’ pesanti, complicate. Invece eccoci qua, abbiamo preso un appuntamento su una piattaforma e a un’ora precisa ed entro un tempo preciso ci «scambiamo » le informazioni giuste. Mentre invece in presenza è tutto complicato, soprattutto il silenzio. Eh no, se c’è una cosa che online finalmente diventa rara è proprio il silenzio. Tutto prende una forma più circoscritta, precisa. E al diavolo l’ambiguità degli amanti, le tenerezze che richiedono dall’altra parte una risposta allusiva. Cosí online è tutto più dichiarato. Soprattutto non dobbiamo chiederci se l’altra persona si stupisca dei nostri cambiamenti, non dobbiamo troppo coprirci, imbellettarci, prepararci: è lo schermo che fa gran parte del lavoro. Perché sullo schermo l’imbarazzante plasticità del nostro volto, l’inafferrabilità del linguaggio del corpo, l’odore della timidezza vengono sfumati, attutiti, eliminati. Perciò andare in giro con una mascherina è una grande rivoluzione: non veniamo mo-lestati da sguardi curiosi, non veniamo interpellati da sconosciuti, perfino dare indicazioni è molto più semplice. Ci sentiamo nascosti abbastanza, noi che eravamo così tanto esposti nel bailamme del quotidiano mediterraneo. In fin dei conti ci viene quasi da dare ragione ad altre culture che hanno recuperato nel velo il diritto alla propria privacy. Abbiamo perso l’informalità degli incontri, gli sguardi di desiderio lanciati da malaugurati passanti? Meglio così, una buona mascherina elimina il cinquanta per cento del «catcalling ». E riduce le possibilità che possiamo piacere a qualcuno che non conosciamo. Ma poiché in queste faccende la sicurezza è tutto, nulla, nemmeno la mascherina, è più sicuro di uno schermo. Stiamo assistendo alla vittoria dello schermo sulla faccia, la vittoria di tutti i verbi in cui la funzione di frontiera dello schermo stesso prevale sulla tecnologia: schermarsi, fare da schermo, essere schermo a qualcosa e a qualcuno, ma anche schermirsi, difendersi da qualcosa o da qualcuno o da noi stessi. Il trionfo del nascondimento, del filtro rispetto al mondo là fuori. Anche adesso che forse le ragioni igieniche stanno affievolendosi è bello essere rimasti nel vantaggio del digitale. Non siamo noi quelli che si offrono allo sguardo altrui. È la riduzione di noi, quello che ci va di offrire agli altri senza comprometterci. In questa situazione non se ne parla nemmeno di arrossire, figuriamoci di imbarazzarci. Siamo i figuranti di noi stessi, e la vita quotidiana è davvero ridotta a un teatro di ombre: siamo la proiezione che ci ha scarnificato, disincarnato. Se una volta era proprio l’incarnato lo «schermo» della propria presenza su cui poteva apparire irruente l’emozione che si faceva colore, adesso siamo dei surrogati di presenza, delle pallide larve fatte di pixel. Abbiamo vinto come individui, come singoli, a spese della perdita di referenti e di reciprocità. È difficile strizzare l’occhio, alludere a cenni, costruire complicità. Non ci sono ombre sotto il sole del digitale, ogni sfumatura deve essere abolita, incluso l’incarnato con il suo rossore e l’intera palette di colori sfumati, cangianti, che dice troppo di noi. Meglio proteggerci, meglio che ci nascondiamo.