Agorà

Basket. Drake Diener, l’invincibile

Antonio Giuliano mercoledì 8 febbraio 2017

Diener, 35 anni, asso della Betaland Capo d’Orlando (foto Joe Pappalardo)

Ci sono storie che solo lo sport può raccontare. «Lo ripeto sempre a mio figlio piccolo, papà è uno che non si arrende mai». Quella di Drake Diener è la favola di un giocatore di pallacanestro che da oltre dieci anni conquista i palazzetti d’Italia seminando non solo gli avversari ma anche il morbo di Crohn, la malattia con la quale combatte dal 2005. Il “cecchino” americano, entrato nella storia della nostra Serie A con più di 4mila punti segnati, è a 35 anni nel cuore di tutti gli appassionati, al di là dei tifosi delle squadre italiane in cui ha militato. Centonovantasei centimetri di pura classe, tiratore dalla mano “caldissima” (soprattutto da tre punti), il “Man-Drake” del parquet è un bomber che ha infiammato tutte le piazze dove ha giocato: Capo d’Orlando, Siena, Avellino, Teramo, Sassari, Reggio Emilia. Scovato e voluto dal “profetico” Meo Sacchetti (oggi coach a Brindisi) è approdato nel nostro Paese nel 2006 cominciando la sua cavalcata dalla Legadue con la canotta del Castelletto Ticino. Prima di spiccare il volo con l’Orlandina Basket dove è ritornato quest’anno per prendere per mano la squadra rivelazione del nostro campionato.

Ha cominciato a palleggiare molto presto da bambino.
«Lo devo al mio papà, che ancora oggi allena una squadra universitaria insieme a mio fratello. Mi segue anche dagli Stati Uniti e guarda tutte le mie partite: è il mio coach personale. Lui mi ripete sempre che prima di far canestro bisogna far giocare bene i compagni, la squadra viene prima di tutto».

Che cos’ha il basket più degli altri sport?
«Ho fratelli e cugini cestisti, è sempre stato per me uno sport di famiglia. Da piccolo ho giocato anche a baseball e football. Ma non avevo il fisico e poi la pallacanestro è molto più coinvolgente. Ho avuto la fortuna di laurearmi e giocare all’Università cattolica DePaul di Chicago che negli anni ha dato tanti campioni all’Nba».

Ma la sua carriera ha rischiato di arrestarsi bruscamente prematuramente.
«Nel 2005 ho scoperto di essere affetto dal morbo di Crohn una patologia cro- nica dell’intestino. Avevo dolore lancinanti allo stomaco e grandi difficoltà a digerire. Non avevo più fame e dimagrivo giorno dopo giorno. Arrivai a perdere 22 chili. Ho subito due interventi ma da questa malattia non si guarisce mai completamente. Quando sono uscito dall’ospedale ero l’uomo più felice della Terra. L’anno scorso però è ritornata. Durante il riscaldamento prima di una partita ho avuto delle fitte tremende. E ho rivissuto vecchi incubi. Ma ho tenuto duro e oggi mi sento bene».

La svolta cestistica nel 2006 quando un grande conoscitore di basket come coach Sacchetti ha intravisto il suo talento e ha voluto a tutti i costi che lei venisse in Italia.
«Lui per me è come uno zio, lo “zio italiano”. Lo ammiro molto e sarò sempre suo tifoso in ogni squadra dove andrà. Sono stato con lui in tre società diverse e abbiamo fatto grandi cose insieme. A lui è legato il mio trofeo più bello».

Quale?
«La Coppa Italia, primo grande trofeo per Sassari, che allora non era ancora così affermata, veniva dalla Legadue. Ho vissuto in Sardegna tre anni fantastici. È vero, ho vinto anche uno scudetto, a Siena, ma quella squadra era già una macchina imbattibile e io ho dato solo un piccolo contributo. A Sassari poi ho giocato con mio cugino Travis, è stato bello vincere insieme, siamo amici da quando abbiamo due anni».

Oggi la sua Betaland Capo d’Orlando sta sorprendendo tutti. Dove può arrivare?
«Anch’io non me l’aspettavo. Ma i miei compagni sono davvero bravi. Merito del nostro coach Gennaro Di Carlo e della società che nonostante un budget non paragonabile ad altre squadre ha preso giocatori funzionali. Il nostro obiettivo è finire tra le prime otto per giocare i playoff. Anche se sarebbe bello arrivare tra le prime quattro. Non dobbiamo accontentarci e guardare sempre in alto. Questo è un campionato molto equilibrato e anche per Milano non sarà una passeggiata vincere lo scudetto: in una gara secca anche loro si possono battere».

A parte una breve parentesi in Spagna (a Saragozza) ha sempre giocato in Italia.
«Qui è la mia seconda casa. Con mia moglie e i miei tre figli ci troviamo davvero bene. Il vostro è un Paese con persone molto generose, sempre pronte ad aiutarti, e abbiamo davvero tanti amici».

Non è più un ragazzino ormai, cosa c’è nel suo futuro?
«Non voglio smettere. Voglio giocare ancora per anni. Non so ancora che cosa farò dopo, ma di sicuro vorrei continuare ad aiutare i bambini e i giovani col morbo di Crohn. Mi considerano un esempio, vedere che nonostante tutto ce l’abbia fatta dà loro la forza per lottare. C’è una luce in fondo al tunnel. Anche se in alcuni momenti non la vedi, non devi abbatterti».

Qual è il segreto della sua forza?
«La mia famiglia e mia moglie soprattutto. Una persona splendida, ha sacrificato tutto, i suoi studi e la sua carriera per seguirmi. È una mamma fantastica, si prende cura di tutti sempre col sorriso. Non dimenticherò mai il suo dono più bello: la nascita del primo figlio, il 23 dicembre, un super regalo di Natale».

Ai suoi figli sta trasmettendo la passione per il basket.
«Il più grande, che ha cinque anni, sta già facendo minibasket. Sono contento, ma sarà una sua scelta. E comunque lo sport viene dopo. A me interessa soprattutto la sua crescita come uomo. Voglio che sia un “duro” e anche di fronte alle difficoltà non perda mai la speranza».