Ero giovane e non andavo a vedere il teatro di Diego Fabbri intanto per idiosincrasia politica e culturale e poi perché si trattava di un teatro di parola proposto in un tempo in cui funzionava un altro tipo di prodotto scenico. Allora mi sentivo troppo vicino a Brecht che Fabbri, pirandelliano arciconvinto, osteggiava e non riusciva a condividere. Nel mondo non solo del teatro era come schierarsi con Marx o con Cristo. Eravamo nel clima rovente del Sessantotto, in quello più crudele delle rivolte armate degli anni settanta. Anni in cui si scatenava anche la guerra tra autori teatrali e registi e il teatro di parola languiva di fronte alle grandi invenzioni sceniche, alle trovate drammaturgiche affidate al movimento, alle coreografie e alle mastodontiche scenografie, il testo era come morto e il teatro popolare frenava i monologhi, Carmelo Bene sparava a zero contro il teatro classico, la riflessione non di tipo politico era ritenuta cultura elitaria e dunque reazionaria e fascista, e non sto a dire di quella psicanalitica e religiosa. Era proprio un tempo di ribellione e di confusione e andavamo progressivamente scivolando verso una stagione a volte di superficialità e a volte di assoluta supremazia dell’immagine sulla parola. Ma a rileggere oggi il
Processo a Gesù di Diego Fabbri mi rendo conto del perché quindici - vent’anni prima, cioè negli anni cinquanta quel testo aveva potuto conoscere un successo planetario, un testo che in seguito aveva potuto accostare soltanto una fetta ristretta di giovani, o una fascia sociale e un pubblico particolari. Solo oggi, cadute le barriere sollevate dalle ideologie, il
Processo è stato sdoganato e mi accorgo di quanta profondità e di quali interrogativi concreti si ponesse Fabbri e con lui una intera generazione di scrittori. Una tradizione letteraria che parte dal
Grande Inquisitore di Dostoevskij e si innesta nei giochi narrativi di Joseph Roth e e giunge a Pomilio e Crovi, con varianti tematiche e formali considerevoli. Io credo che Fabbri stia tutto in quel testo, nato all’indomani della guerra, dopo il clima di odio espresso da mezzo secolo. Una gestazione lunga, che parte a suo dire già dal ’43, quando degli avvocati inglesi provocatoriamente inscenano a Gerusalemme un processo a Gesù. Nel ’48 una prima prova con
Inquisizione e il pamphlet del ’49 su
Cristo tradito, ovvero tradito negli insegnamenti di fratellanza e di amore.
Inquisizione trova successo nel ’50 a Milano e poi a Parigi, dove Fabbri si stabilisce a partire dal ’52 e dove conosce alcuni di quegli scrittori della cristianità inquieta francese. Anni di maceramenti, di riflessioni, di riscritture, poi la nascita del soggetto che Paolo Grassi accetta di far mettere in scena presso il Piccolo di Milano nel 1955 per la regia di Orazio Costa. Un testo provocatorio che verrà messo all’indice dal tribunale del Sant’Uffizio per «offesa alla religione e istigazione all’odio sociale». Ma Fabbri non era nuovo alla censura se il fascismo aveva bloccato
Palude, col pretesto che si trattava di una metafora politica. La trama del
Processo. Una compagnia di attori ebrei gira da anni per i teatri d’Europa mettendo in scena lo stesso spettacolo, un
Processo a Gesù, nel quale si interrogano se l’uomo fosse colpevole o innocente e se altrettanto colpevoli o innocenti siano stati loro, gli ebrei che lo condannarono a morte. A metà anni cinquanta sarebbe stato altrettanto legittimo chiedersi cosa fosse accaduto nella Germania dei lager e della Shoah, se la colpa degli ebrei si fosse rivoltata su loro stessi all’apparire del nazismo, ma per Fabbri parve più importante interrogarsi sulla centralità di Cristo nel mondo e sul sentimento dell’amore venuto a sconfiggere la legge del taglione e ogni forma di odio razziale e politico. Elia e sua moglie Rebecca, la figlia Sara vedova di Daniele, vittima dei nazisti e Daniele che ha avuto una storia d’amore con Sara, ogni sera si improvvisano giudici e interrogano una serie di testimoni che questa prova di teatro nel teatro finge di prendere dal pubblico: Caifa, Pilato, Pietro, Maria e Giuseppe, Giuda e la Maddalena. Unico assente Gesù. Il contenuto è un processo giudiziario, politico e umano a Gesù. I genitori raccontano la loro difficoltà a frenare un adolescente destinato a perseguire una propria via. Giuda ha assecondato Cristo e i discepoli pensandoli fomentatori di una rivolta sociale contro i romani, ma si è ribellato quando ha ottenuto risposte negative. La Maddalena pone l’amore al centro dell’insegnamento del Profeta. Il risultato del processo è presto detto, Gesù fu innocente e la sua colpa è stata aver propagato l’amore, aver raccontato che stava arrivando un nuovo regno e aver provato a mostrare la propria identità attraverso la meraviglia dei miracoli. Nella seconda parte ecco altre figure, una bionda, un intellettuale, un prete, una donnetta delle pulizie. Gente di oggi che si confronta con la Chiesa e con Gesù. Ognuno ha visto se stesso nei personaggi del primo tempo. E tutti insieme costruiscono un grande processo alla cristianità. Una cristianità che accetta alla fine la necessità della presenza di Cristo, come conclude la donna delle pulizie: se condannassero di nuovo Gesù, a lei e a tutta l’umanità non resterebbe più nulla. Cristo dunque come necessità. Questa una delle ragioni per cui la rappresentazione del testo venne bloccata dal Sant’Uffizio, proprio mentre un socialista come Grassi lo aveva accolto a teatro. Fabbri continuò nel suo impegno cristiano, gli parve anzi che fosse quanto mai giusto interrogarsi sui grandi temi e riviverli alla luce dei tempi nuovi. Per la televisione sceneggiò
I fratelli Karamazov e
I demoni, per il teatro produsse almeno cinquanta testi, fino a quella serie di domande che Fabbri poneva
Al Dio ignoto, e che andarono in scena poco prima della sua morte avvenuta nell’80.