Non hanno mantenuto la promessa. Dopo oltre mezzo secolo che ci si gira intorno, ormai si può tracciare il bilancio: e le grandi attese sono andate, sostanzialmente, deluse. Né il pensiero postcoloniale né le sue gemmazioni, come gli studi subalterni, hanno portato quei contributi che pure avevano annunciato. Peccato, perché le premesse erano ottime. Era una buona idea, quella di svincolare la ricostruzione del passato e la descrizione del presente dalle categorie mentali elaborate dall’Europa e per l’Europa, e sostituirle con altre: autoctone, autenticamente africane o indiane o di qualsiasi altro territorio caduto preda della colonizzazione – che fu un fenomeno non soltanto politico-economico, ma anche, e profondamente, culturale. Era una buona idea, ma non ha funzionato. Né in campo storico, né in campo sociologico, né in quello economico; insomma, in nessuna delle cosiddette scienze umane. Altro discorso è quello della letteratura postcoloniale, che invece è riuscita a costruirsi una propria reputazione condita di premi Nobel – anche se resta sempre il dubbio su quanto l’ammirazione per questa poesia e questa narrativa derivino dalla loro grandezza, e quanto invece non discenda dalle mode e dalle convenzioni del politicamente corretto. In principio, quando il colonialismo non era ancora "post", fu la Négritude dei Césaire e dei Senghor: volontà di riscoperta dei valori spirituali, artistici e filosofici dell’Africa nera, presto divenuta sorta di ideologia non ufficiale dei movimenti indipendentisti; vennero poi i manifesti di Fanon e la serrata critica di Said all’orientalismo. E qui s’innestò subito la parte più proficua del pensiero postcoloniale, quella
destruens che criticava a buon diritto la tendenza a rapportare ogni manifestazione storica e culturale all’Europa, e a misurarla in termini di vicinanza o lontananza dai suoi modelli. Con il corollario, implicito ma inevitabile, di dare un giudizio positivo a ciò che all’Europa assomiglia, e negativo a ciò che invece se ne allontana. Come critica all’eurocentrismo, insomma, il movimento postcoloniale aveva pienamente ragione. Spiega l’antropologo Dipesh Chakrabarty: «Il modo che un certo popolo ha di organizzare la propria memoria non vale né più né meno di quello europeo»: anche se non si basa sul nostro tempo, lineare e uniforme; anche se non procede attraverso successioni di fatti; anche se non si poggia su fonti scritte "oggettive", ma su tradizioni orali che mescolano storia e mitologia. Una posizione che, in linea di principio, trova pienamente d’accordo anche gli stessi studiosi occidentali: che pertanto attendono queste spiegazioni "alternative". Peccato che in cinquant’anni non siano venute fuori, dai postcoloniali, altro che trasposizioni dei miti e delle credenze tramandate, magari interessantissime dal punto di vista etnografico, ma ben poco convincenti sul piano della volontà di comprendere le cose. Tanto che alla fine anche alcuni dei suoi alfieri, come Arjun Appadurai, hanno preferito prenderne le distanze, accusandolo di essere ormai «eccessivamente rivolto al passato».Questo è il grande limite degli autori postcoloniali: descrivono e raccontano, magari denunciano, ma non "spiegano". Quando tentano di farlo, o si rifugiano in narrazioni – magari anche sintomatiche e significative, ma pur sempre narrazioni – o cadono di nuovo, più o meno consapevolmente, nelle tanto esecrate categorie "occidentali". Due su tutte: marxismo e femminismo. L’"essenzialismo strategico" di Gayatri Chakravorty Spivak, per esempio, scivola fino a confondersi nel concetto di "identità di genere" portato avanti dai movimenti femministi (ma anche, più recentemente, da quelli omosessuali) come strategia di lotta per ottenere riconoscimenti ("diritti", nel loro lessico) in campo politico, sociale o economico.I testi postcolonialisti risultano spesso fumosi, confusi, oscuri; un capitolo descrive, minuziosamente fino alla noia, un rito o una visione del mondo di una sperduta tribù dell’India centrale, e quello successivo si lancia in una disamina dettagliata delle angherie della solita multinazionale contro quella stessa tribù – o magari anche di un’altra, senza che se ne colga il nesso –, oppure in una proposizione teorica tanto articolata quanto, sostanzialmente, incomprensibile. Chakrabarty – peraltro marxista dichiarato – quando vuole parlare della condizione femminile nel Bengala di fine Ottocento racconta, da bravo postcoloniale, la suggestiva storiella di Akshmi e Lakshmi, divinità rivali nelle quali le donne s’identificavano. E poi, visto che vuol capirci qualcosa anche lui, eccolo due righe sotto tirar fuori tutto l’armamentario dell’antropologia "coloniale", dal clan al patriarcato. Partha Chatterjee ha senz’altro ragione quando contesta il concetto di Stato -nazione perché squisitamente occidentale, e quindi inadatto sia a descrivere, sia a ispirare la politica di un popolo del Terzo mondo; tuttavia, come alternativa propone di «pensare simultaneamente il colonialismo, il postcolonialismo, la modernità e l’idea di Stato-nazione; e inoltre di ricordarsi dei punti di vista non nazionalisti e non coloniali su ciò che questo stesso insieme di concetti rappresenta». Tutto quel che sembra di poter spremere, da queste elucubrazioni, è un nuovo tabù intellettuale: guai a criticare, o anche solo a presentare in termini men che encomiastici, alcunché riguardante le tradizioni, le credenze o i costumi di un qualche popolo "subalterno". Lo ha ben sperimentato, anche al recente Festivaletteratura, V.S. Naipaul, duramente contestato per aver osato raccontare, nel suo
La maschera dell’Africa, quello che aveva osservato durante i suoi lunghi soggiorni nel Continente nero: incluso qualche sgozzamento. Invece no, chiamare le cose con il loro nome – genocidio il genocidio, per esempio, così come viene praticato da secoli in Africa – è soltanto una cieca incomprensione dettata dalla dittatura delle categorie del pensiero occidentale (se va bene: sennò è bollato come razzismo). E allora? Per essere convincente, il pensiero postcoloniale avrebbe dovuto spiegarci perché quegli sgozzamenti, o quelle tribù che vegetano da millenni nella fame più nera, o quegli indigeni da sempre in balia di carestie e pestilenze, sarebbero il prodotto di meccanismi "alternativi" rispetto all’evoluzione storica lineare propria dell’Occidente. Ora, fatto tesoro delle benefiche critiche venute dal postcolonialismo, è forse arrivato il momento di prendere atto che le tanto esecrate categorie di comprensione della realtà – storiche, antropologiche, sociologiche, economiche – non sono affatto "europee" o "coloniali", ma semplicemente "umane". Che hanno avuto la ventura di essere elaborate in Europa, soltanto perché è stata l’Europa a porsi per prima – da Talete in giù – il problema di spiegare la complessità del mondo, e non soltanto di raccontarla.